GABRIELE BASILICO, LIBRO 'ARCHITETTURE, CITTA', VISIONI'
Riflessioni sulla fotografia
Agostino Maiello, ottobre 2015

Giugno 1998. Avevo iniziato a fotografare da pochi mesi e, oltre a non sapere quasi nulla di tecnica fotografica, ero a digiuno anche di storia della fotografia; né conoscevo gli autori più rappresentativi in circolazione. Stavo insomma muovendo i miei primi, primissimi passi nel mondo della fotografia e, come in tutti i percorsi formativi, guardando oggi il mio ravviso a posteriori la compresenza di metodo e casualità, ragione ed istinto. E fu per l'appunto il caso a farmi cadere l'occhio, una domenica pomeriggio a casa dei nonni, su un trafiletto del quotidiano "Il Mattino" (di Napoli), che non avevo l'abitudine di comprare (lo leggevo solo la domenica dai parenti!). Il trafiletto dava notizia di un incontro con il fotografo Gabriele Basilico presso uno studio fotografico cittadino, con annessa proiezione di alcune sue immagini.
Di Basilico ignoravo del tutto l'esistenza (vedi alla voce "ignoranza crassa"), ma sentivo che la fotografia di architettura, qualunque cosa ciò significasse, esercitava su di me un fascino sottile, attirandomi, come genere fotografico, assai più delle scontatissime femmene annure, pardon, fanciulle desnude, tanto tipiche dei fotoamatori alle prime armi (e spesso anche seconde e terze).
Decisi dunque di andarci, e così feci. Basilico, un signore affabile e dai modi garbati, parlò per un paio d'ore, proiettando una serie di diapositive bianconero (Agfa Scala, chi se la ricorda?). Edifici, ciminiere, incroci stradali, scorci urbani, porti: una dopo l'altra le immagini mi conquistarono con la loro eleganza, la loro compostezza, la bellezza semplice non superficiale e men che meno occasionale: bensì articolata e resa tale da una qualità sottile, che allora non riuscivo a verbalizzare né ad afferrare del tutto ma che le osservazioni di Basilico su ogni singola immagine mi aiutavano via via a cogliere.
Uscii da quell'incontro con una maggiore consapevolezza di cosa mi sarebbe piaciuto (saper) fotografare, e felice di aver potuto gettare uno sguardo, per quanto acerbo e timido, su quell'universo di esperienze e concetti che sostanziano il rapporto tra il fotografo, il soggetto da raccontare, ed il linguaggio utilizzato.

Sono passati tanti anni, ma ho ancora da parte l’email con cui raccontavo l’esperienza ad un certo Rino Giardiello: <Ah, per caso hai mai sentito parlare di un fotografo che si chiama Gabriele Basilico? [sic] Sono stato ad una sua proiezione di dia, lunedì scorso, e mi ha molto ben impressionato.> (Dal che si deduce che ero sì una capra nel non conoscere Basilico, ma non così tanto da non accorgermi di come fosse un fotografo di prim’ordine).
E, ancora: <Un paio di domeniche fa mi capitò di leggere sul giornale che ogni lunedì pomeriggio, presso uno studio fotografico a Piazza Plebiscito (lo Studio Parisio), si svolgevano i cosiddetti "Lunedì della fotografia": incontri con fotografi professionisti con dibattiti e proiezioni. E quel lunedì c'era appunto Basilico, del quale non sapevo nulla. Ha proiettato un centinaio di dia b/n, tutti paesaggi urbani, divise fra Milano, Palermo e Nizza. Alcune erano veramente straordinarie. Penso di averlo anche un po' colpito quando ho fatto dei commenti su alcune sue "doppie immagini" (certe diapositive erano, in realtà, due scatti leggermente diversi dello stesso soggetto disposti uno di fianco all'altro), osservando che la doppia visione che lui richiede allo spettatore non è né di tipo "stereoscopico" né di tipo "dinamico" (prima e dopo), ma è qualcosa di istantaneo e globale. Non so se mi sono spiegato, comunque come dicevo lui ha apprezzato la mia valutazione, e la cosa mi ha alquanto inorgoglito (perché negarlo?).>

E dopo aver descritto le circostanze in cui l’ho scoperto, veniamo all’oggi, o meglio al 2007, quando esce il volumetto di cui si occupa questo scritto. Nato partendo da conversazioni e da vari scritti, e corredato da una cinquantina di fotografie, contiene quattordici testi che ripercorrono a grandi linee il percorso artistico di Basilico, dai primi studi di Architettura a Milano fino alla ribalta internazionale. Il filo conduttore non è tanto quello della biografia, bensì l’illustrare come, negli anni, Basilico abbia maturato e sviluppato il suo approccio alla visione, e come abbia dato sostanza, con l’esperienza, ad uno specifico modo di rapportarsi allo spazio (quasi sempre urbano) da raccontare e fotografare. Abbiamo dunque le sue osservazioni su quella che definisce l’ipervisibilità della luce, e il voler seguire consapevolmente un percorso fotografico differente dall’abituale emulazione di maestri quali Cartier-Bresson e, in generale, del reportage di scuola Magnum: si passa cioè dal “momento decisivo” alla “lentezza dello sguardo”, con l’intento di “voler cogliere nell’immagine tutti i particolari, fino alla complessità delle cose che, a una minuziosa osservazione, il paesaggio poteva restituire”.
Il maturare del rapporto tra il fotografo e lo spazio, l’abitudine a percorrere in maniera ripetuta i luoghi da raccontare, così da accumulare più o meno coscientemente nella memoria un bagaglio di immagini - non scattate, ma viste - che poi, inevitabilmente, finiscono con lo giocare un ruolo al momento dello scatto, la scelta di usare apparecchi in grande formato con la lenta operatività che ne consegue: sono tutti aspetti di un percorso artistico e di consapevolezza sui quali Basilico non si risparmia e, in un linguaggio piano ed accessibile, racconta al lettore quali sono stati i motivi e le contingenze che lo hanno spinto ad intraprendere, progetto dopo progetto, determinati percorsi alla ricerca di una visione personale.

“Credo che la fotografia, con il suo potere di fissazione del reale, permetta di evocare la storia, di usare la memoria come strumento attivo e sensibile per rimettere in circolo energie trattenute o nascoste dietro le forme dell’apparenza. E se la fotografia alla fine non può certo cambiare il destino della città e non può tanto meno influenzare in modo determinante le scelte progettuali e politiche, ciò che sempre importa è la possibilità di poter creare una nuova sensibilità. Una nuova sensibilità per poter interpretare il mondo conformato, caotico e indecifrabile che ci sta innanzi.” La conclusione, acuta e suggestiva, è la degna chiusura di una lettura scorrevole ma mai banale, profonda ma non cerebrale; densa e leggera al contempo. In un’epoca dove pare conti solo quanti megapixel usare o quale elaborata tecnica di Photoshop applicare, un testo di pura e sincera riflessione sul perché si è fotografato in quel modo ciò che si è fotografato in quel modo è una vera e propria boccata d’aria fresca per tutti coloro (e sono tanti, tantissimi) che si affidano alla fotografia come ad uno strumento espressivo, e siano sempre in cerca di nuovi stimoli grazie ai quali affinare il proprio linguaggio.

Perché, come i succitati tantissimi ben sanno, si può anche comprare una penna stupenda e modernissima; ma se non si ha molto da dire, ciò che si scrive varrà ben poco, e questa è la sfida più grande.

Agostino Maiello © 10/2015
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A sinistra, un bel ritratto a Gabriele Basilico scattato da Rino Giardiello durante una sua mostra a Napoli.