I MOSTRI DI DIANE ARBUS
Serena Effe, novembre 2006

Una riflessione sulle "brutte fotografie" della Arbus, con qualche inevitabile sconfinamento, intorno alla radicale interpretazione fattane da Pino Bertelli nel suo saggio "Della fotografia trasgressiva. Dall'estetica dei freaks all'etica della ribellione".

Diane Arbus fotografata da Stephen Frank al Rhode Island School of Design, nel 1970.

Diane Arbus, Lauro Morales, nano messicano, nella sua stanza d'hotel a N.Y.C., 1970

La Fotografia, nell'interpretazione che ne ha fatto la Arbus, si è fatta strumento di emancipazione, di libertà, di ribellione.
Emancipazione dall'opprimente american way of life degli anni Cinquanta, in cui una donna di buona famiglia era tenuta a sognare una casa con giardino fuori città, un cane e un nuovo figlio, a sentirsi a proprio agio nella morsa di vestiti castigati, metafora di una società altrettanto rigida e non incline a "sbottonamenti" reali o metaforici (o, almeno, particolarmente dura col cattivo gusto di chi osava trasgredire alla luce del Sole, senza prendersi la briga di occultarsi ben bene dietro la spessa e misericordiosa cortina dell'ipocrisia).

A chi le chiese il perché si fosse dedicata seriamente alla fotografia solo a partire dai suoi 38 anni, ella rispose, con un sarcasmo cristallino: "Perché una donna passa la prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere questi ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di fare altro."

Fotografia come strenua affermazione del proprio essere deforme: del proprio esistere, in quanto individuo/entità autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta.
E proprio la categoria del 'deforme', infatti - nella sua accezione etimologicamente neutra, e quindi sgombra da qualsiasi intento di giudizio -, fu il campo prescelto da questa fotografa americana per cercarsi, e riconoscersi, nel mondo che la circondava. Dai più classici "fenomeni da baraccone" agli individui affetti da deformità fisiche o psichiche, o più semplicemente considerati dalla società dispregiativamente "diversi" per certi loro comportamenti e attitudini (casistica che viene solitamente riassunta dal termine 'freaks', con cui ci si riferisce a persone che siano fisicamente abnormi o, più in generale, a individui considerati negativamente inusuali a causa del loro modo di agire).
Talvolta la deformità si fa più segreta, nascondendosi nelle pieghe ben stirate di una quotidianità borghese che si vorrebbe impeccabile. Ma, dice la Arbus: "c'è sempre una differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra l'intenzione e l'effetto"; è in queste foto che il senso di inquietudine si fa più forte, proprio quando la sensibilità della Arbus si infiltra in questo stretto spazio incontrollabile, svelando storture segrete in volti e corpi all'apparenza perfettamente normali.

Diane Arbus, Ermafrodito con cane, 1970

Diane Arbus, Giovane coppia di Brooklin in partenza per una gita domenicale. Il loro bambino si chiama Dawn. Loro figlio è ritardato, 1970 (da notare come la Arbus passi dai numerosi 'Senza titolo' a vere e proprie didascalie che condensano in poche righe storie ed esistenze intere).

Una sua celebre affermazione recita: "La Fotografia è un segreto intorno ad un segreto: quanto più ti dice, tanto meno riesci a capire".

La Fotografia mistifica, aumenta il caos invece di dissolverlo, perché intacca la superficie uniforme della presunta "realtà oggettiva", frantumandola in una miriade di tasselli minuscoli, di sguardi unici. Laddove non c'era niente, ora c'è una foto, e ciò che sarebbe passato senza lasciar traccia di sé, ora imprime col peso della memoria un supporto materiale potenzialmente eterno (grazie alla sola spinta emotiva che ha portato il fotografo a scattare proprio lì, proprio in quell'istante). Laddove c'era un vuoto di senso, ora c'è l'interpretazione che di quel vuoto ha fatto una singola persona. Ogni foto, per questo, è un segreto elevato a potenza.
E Diane Arbus, come molti altri grandi fotografi, lo sapeva bene, che fotografare non significa ritrarre la realtà, come in un semplice riflesso di specchio. Nel momento in cui si scatta, le apparenze del reale sono già state istantaneamente sottoposte ad un "filtraggio" e ad una trasfigurazione attraverso la propria interiorità (che le ha scelte, che le ha in qualche modo "riconosciute").
Dopo quell'attimo, quella realtà non è più la realtà "di tutti"; è come dire "Ecco: questa è la mia realtà. Questa sono io". Scattare, in questo senso, diventa una presa di coscienza del proprio sé prima ancora di ciò che è fuori da noi (e, come scrive Bertelli nel suo saggio: "prendere coscienza di sé abolisce ogni soggezione"). Fotografare diventa così gesto estremo di libertà, di autonomia, di consapevolezza; un ratificare la propria esistenza in questo mondo - giusta o sbagliata che sia -, un calcarne i contorni quando questi sembrano sfumare nell'indistinto. Come una sorta di "vedo (e scatto): dunque sono" che scaccia momentaneamente la paura, che afferma con forza il nostro diritto ad esistere al di là di ogni presunta conformità obbligata.
Le fotografie della Arbus propongono, essenzialmente, modi diversi e "altri" di stare al mondo. Non tanto però - o non solo - per fare della Fotografia sociale; quanto nella speranza che, all'interno di questa sconfinata varietà, anche il suo modo possa trovare spazio.

Nei suoi scatti non c'è traccia di patetismo, morbosità o auspici di riscatto: il diverso e lampante "esserci" dei protagonisti è già di per sé l'unico, vero riscatto possibile, ben più dignitoso e concreto di qualsiasi accettazione "concessa" dal resto del mondo, invischiato in un concetto di solidarietà che il più delle volte nasce esclusivamente da un potentissimo senso di sostanziale estraneità nei confronti di queste realtà marginalizzate.
L'unico sentimento presente è la partecipazione: una partecipazione che non potrebbe essere così forte se chi scatta non si sentisse intimamente lacerata per il suo considerarsi "sbagliata", impaurita dalla potenza devastante del pregiudizio.
La Arbus bussa rispettosamente alle precarie porte delle esistenze che immortala, chiede di essere accolta e soprattutto - in forza di un capovolgimento di ruoli - di essere accettata: quasi chiedesse un'elemosina di coraggio a quegli individui così "strani", ma nonostante tutto perfettamente in grado di esistere (facoltà, questa, che cesserà di assisterla nel 1971, conducendola al suicidio dopo un lungo periodo di depressione); educatamente, non entra mai prima che le venga detto "prego, avanti".
E' anche questo sentimento di necessità disperata che, mettendo al riparo le sue foto da ogni documentarismo, rende la sua opera così profonda agli occhi dell'osservatore.
Ogni sua foto è coltivata attraverso un rapporto diretto con il soggetto, in cerca di una reciproca fiducia, di una comprensione: le sue immagini non sono mai rubate, non si affidano all'abile arte dello spiare che fa la posta al fantomatico "momento decisivo"; i soggetti sono quasi sempre in posa frontale, consapevoli nel loro essere investiti dalla spietata carica indagatrice dell'onnipresente flash.
In totale controtendenza con il suo nascere fotografa di moda, la Arbus focalizza costantemente l'attenzione sulle espressioni e sugli sguardi, mimetizzando al massimo ogni accessorio, sia esso il vestiario del soggetto o l'ambiente che lo accoglie.
Scarsissima, quasi assente la ricerca compositiva dell'immagine ("Detesto l'idea della composizione", dirà), così come l'importanza riconosciuta al processo di stampa: "una foto è importante per ciò che rappresenta; ciò che essa rappresenta è più importante di quello che essa è".
Elogio della sostanza a discapito della tirannia della forma/apparenza, quindi; tanto che la Arbus stessa avrà modo di accennare alle sue "brutte fotografie", impermeabili ad ogni limatura artistica, ma proprio per questo capaci di disvelare verità altrimenti invisibili.

Diane Arbus, Donna portoricana con neo, NYC, 1965

Diane Arbus, Bambino in lacrime, New Jersey, 1967

Il saggio che mi ha dato il "la" per sviluppare questa personale riflessione (che non di rado dissente, o imbocca strade autonome rispetto a quanto scritto da Bertelli) colloca l'opera della Arbus nell'ambito di un pensiero anarchico/libertario fortemente connotato: i toni sono enfatici, senza mezzi termini, talvolta sconfinanti nel "profetico"; periodi brevi, serrati, perentori; tante le citazioni, che a lungo andare possono appesantire la lettura (è uno stile che potrebbe non piacere a molti, in sostanza).
Gioverà qui ricordare, per meglio comprendere a cosa si va incontro, che l'autore è uno degli esponenti centrali del neosituazionismo italiano (derivante dall'Internazionale Situazionista: movimento culturale e politico nato in Francia nel 1957 e diffusosi poi a livello internazionale; uno dei principali testi di riferimento - citato spesse volte dal Bertelli - è La società dello spettacolo di Guy E. Debord: in esso si sviluppa la critica contro la società dell'apparenza e del fittizio, dove lo 'spettacolo' si configura come l'incessante blabla che l'ordine presente intrattiene su se stesso come un monologo elogiativo, e in cui la cultura - fotografia inclusa - marcisce, schiava, nei libri paga del Potere).
La fotografia della Arbus si connota qui come "ereticale" e "sovversiva" di un ordine in cui "tutto ciò che si sviluppa spontaneamente è dichiarato illegittimo e viene emarginato". Contro la "feticizzazione e mercificazione degli sguardi", contro il ruolo di simulacro assegnato alla Fotografia dall'industria dell'apparenza ("La sola fotografia possibile è quella praticata fuori dal mercato", scrive Bertelli), si riafferma il valore rivoluzionario di uno sguardo dissidente, che "incoraggi l'immaginario sociale a bruciare i propri miti", allargando la capacità di vedere il mondo oltre i confini della cultura dominante.
In tal senso, la Fotografia sociale (e, nella fattispecie, quella della Arbus) ha il fondamentale compito di opporsi "all'uniformità per andare a cercare il libero sviluppo dell'individuo", di battersi "per una cultura della conoscenza contro la cultura della totalità". E' in forza di questo assunto che Bertelli accosta alla figura della Arbus altri "iconoclasti dell'immagine bella" e fotografi dell'impegno civile come Walker Evans, Tina Modotti, August Sander, Dorothea Lange.

Uno sguardo "insolente", quello della Arbus, perché invita ad "imparare a non essere diligenti", insegna il coraggio della disobbedienza e della disperazione.
Una fotografia "randagia" perché libera da qualsivoglia collare, che vaga per circhi, bordelli, ospedali psichiatrici, campi nudisti e ogni sorta di ghetto... che scava nel sottomondo di una società a cui sente di non appartenere più, svelandone il rimosso, sconvolgendo le coscienze addomesticate mettendo in scena l'inusitata violenza della speranza e dell'autentico: "i ritrattati della Arbus divengono il doppio, l'odiata memoria di un'umanità pianificata nei gusti, nelle emozioni, nei sogni...".
Svelando l'etica di questa realtà parallela e sommersa, la Arbus "spezza lo stile di un'epoca, sfondando gli argini della Fotografia mercantile". Queste, in breve, le linee guida del pensiero di Bertelli (le frasi tra virgolette sono citazioni letterali dal saggio).
Come forse sarà già chiaro, non aspettatevi un saggio 'di fotografia'. La Arbus, in questo libro, sembra piuttosto poco più di un pretesto per sviluppare un discorso di altro tipo (non immune da una retorica a lungo andare fastidiosa, a mio avviso), tanto che nel corso della lettura viene spesso da chiedersi: "arriverà prima o poi a parlare della Arbus per almeno due righe di seguito?" (e verso la fine ci arriva, abbiate fede).
In alcuni passi può addirittura passare per la mente il dubbio che l'autore stia strumentalizzando il lavoro della fotografa, plasmandolo a sostegno delle proprie idee. C'è un concetto in particolare che mi porta a dire questo, e che assolutamente non mi trova d'accordo: considerare l'opera fotografica della Arbus come una crociata in favore degli oppressi e dei 'perdenti', una sorta di lotta di classe di ascendenza anarchica contro il Potere, significa andare ben oltre la realtà dei fatti.
Se lotta ci fu (e ci fu, senz'ombra di dubbio), fu lotta individuale, privata, e assolutamente non sociale. Le conseguenze del suo lavoro, in fatto di sovvertimento dell'ordine costituito, sgorgarono semmai autonomamente dalla sua opera, ma non dalla sua volontà (che si esauriva nella spasmodica ricerca di una salvezza personale, e non certo dell'umanità tutta).
Detto questo, si tratta comunque di un punto di vista profondamente articolato che, così come ogni altro, vale la pena di essere conosciuto e valutato alla luce delle proprie idee.

Concludo chiarendo il senso del titolo scelto per questo articolo.
C'è chi dice che l'etichetta di "fotografa dei mostri" sia una trovata "infelice". Dipende. Io trovo molto più "infelice" questo ridicolo timore servile nei confronti delle parole, che fa il gioco di quegli stessi visitatori benpensanti che, nel corso di una retrospettiva dedicata alla Arbus, sentitisi minacciati da quelle immagini, ci sputarono contro. Detesto l'ipocrisia degli eufemismi, necessari solo a chi sente di avere la coscienza sporca.
Il significato di una parola - scriveva Wittgenstein - dipende dall'uso che se ne fa.
Mostro deriva dal latino monstrum 'segno divino, prodigio' (dal tema di monēre 'avvisare, ammonire') e arrivò successivamente ad identificare le creature mitiche risultanti da una contaminazione di elementi diversi, tale da suscitare stupore. Creature stra-ordinarie nella loro complessità, dense di un fascino estremo che ha per fulcro l'anomalia.

E allora, sì, la Arbus fu la fotografa dei mostri.
Mostro essa stessa.

Serena Effe © 11/2006
Riproduzione Riservata

NOTA BIOGRAFICA su Diane Arbus

Diane Nemerov nasce a New York il 14 marzo 1923 da genitori di origine polacca, benestanti proprietari di una celebre catena di negozi di pellicce. A 18 anni sposa Allan Arbus, commesso in uno dei negozi di famiglia, dal quale avrà due figlie. Dal marito impara il mestiere di fotografa e insieme si dedicano alla fotografia di moda: le loro foto sono pubblicate su riviste quali Vogue e Glamour. Nel 1958 lascia lo Studio Arbus e diventa allieva della fotografa Lisette Model presso la New School. Inizia in questi anni a maturare la sua vocazione personale, la sua attrazione per i freaks e le loro realtà scomode, ai quali si dedicherà in maniera sistematica e pressoché esclusiva a partire dai primi anni Sessanta. La sua fama passa per due fondamentali esposizioni presso il Museum of Modern Art di New York, nel 1965 e nel '67. Le sue foto destano scandalo nell'ambito della società benpensante, che le ritiene offensive e 'brutte'. Non mancano, d'altro canto, appoggi celebri quali quelli che le vengono dai fotografi Richard Avedon e Walker Evans. A partire dal '65 si dedica all'insegnamento in diverse scuole. In seguito a sempre più frequenti crisi depressive, si toglie la vita il 26 luglio 1971.

Copertina del saggio di Pino Bertelli.
La foto, della Arbus, è Bambino con bomba a mano giocattolo in Central Park, del 1962.

IL LIBRO
Titolo: Della fotografia trasgressiva. Dall'estetica dei "freaks" all'etica della ribellione. Saggio su Diane Arbus
Autore: Pino Bertelli (è uno degli esponenti centrali del neosituazionismo italiano, attivo da anni nella critica cinematografica indipendente e fotografo di strada. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo Della fotografia situazionista - Contro la fotografia della società dello spettacolo. Critica situazionista del linguaggio fotografico - Luis Buñuel. Il fascino discreto dell'anarchia)
Editore: NdA Press 2006 (prima edizione nel 1992 per TraccEdizioni)
125 pagine, 36 foto b/n, prezzo 13 euro

Sommario

- Presentazione di Gianna Ciao Pointer
- Noi e gli altri tra identità e differenza di Alfredo De Paz
- Preludio: Miseria della fotografia
Rapporto sulle immagini e le teorie dell'impostura nell'epoca della falsificazione
1. La scatola magica
2. La decostruzione della comunicazione e il declino del vero
3. La radicalità dello sguardo o il détournement della critica situazionista
4. L'insurrezione dei freaks e la fotografia bootleg
5. L'etica dell'osceno
Immagini della cultura suburbana
6. Fotografia della crudeltà
L'oscenità del vero
7. L'angelo nero della fotografia randagia
Commiato da ieri e apologia eversiva dell'eu-topia