ROBERT ADAMS. LA BELLEZZA IN FOTOGRAFIA
Nora Dal Monte, settembre 2007

Una raccolta di saggi "in difesa dei valori tradizionali" quali bellezza, verità, forma: la fotografia intesa come metodo di riconciliazione col mondo che ci circonda.

Robert Adams (New Jersey, 1937) è uno di quei fotografi che, nonostante le sue immagini siano state oggetto di importanti riconoscimenti e mostre in sedi prestigiose come il Museum of Modern Art di New York o il Philadelphia Museum of Art, non si trova quasi mai incluso nelle storie della fotografia, se non per brevi accenni, e varrà quindi la pena spendere due parole sul suo lavoro, prima di sfogliare insieme questa sua importante raccolta di saggi "in difesa dei valori tradizionali", originariamente pubblicata nel 1981, tradotta in italiano nel '95 e ristampata nel 2006.

Fondamentale, ai fini della sua sensibilità critica e visiva, particolarmente incline ad una delicata deriva poetica, risulta essere la sua formazione letteraria, prima come studente, poi come studioso e successivamente anche in veste di insegnante. Tornato in Colorado - terra in cui era cresciuto - nel 1962, dopo un lungo periodo di assenza, si trovò a fare i conti con un paesaggio profondamente mutato e "ferito" dallo sconsiderato intervento umano: ecco che si rese necessario un percorso di riconciliazione con la geografia del suo mondo, per riuscire a sentirsene nuovamente parte, a riconoscerlo ed amarlo nonostante la mutata fisionomia del paesaggio. Adams sentì dunque il bisogno di mettersi "alla ricerca di un silenzio adeguato", interiore ed esteriore al contempo, che gli permettesse di medicare con cura e pazienza la frattura emotiva che rischiava di trasformarlo in un estraneo in casa propria. Ed è qui, nei silenziosi e maestosi spazi del West verso la fine dei Sessanta, che entra in scena la fotografia, col suo carico di potenzialità riflessive e direi quasi terapeutiche. Fotografare per comprendere, per riconoscere, per riappropriarsi del mondo che ci circonda. Fotografare per consolarsi, se, come ebbe modo di affermare Adams stesso, ogni creazione artistica prende fatalmente le mosse da un'infelicità, da un vuoto che chiede di essere espresso e colmato; l'attenzione esclusiva al paesaggio che caratterizzerà tutta la sua produzione futura, dunque, affonda le proprie radici in questa piaga intima e dolente. A onor del vero, le due foto scelte per illustrare il suo lavoro all'interno di questo articolo (sotto) non sono poi così rappresentative del suo stile, considerato che la rigorosa e quasi asettica geometricità della composizione, che la fa da padrone nelle due immagini sottostanti, non risulta affatto essere il tratto distintivo dell'intero corpus delle sue fotografie; le ho ugualmente scelte, tra le tante possibili, perché mi pareva costituissero una sorta di meraviglioso "dittico hopperiano" (la foto che invece fa da copertina al libro non è sua, bensì di Jacob Riis: risale al 1888 e si intitola Mendicante cieco).

I soggetti ricorrenti dei suoi scatti sono soprattutto agglomerati urbani, autostrade, ponti, centrali nucleari, depositi di rifiuti... e, in generale, ogni altro intervento umano sull'ambiente compiuto all'insegna del disordine e dell'approssimazione, tramite cui focalizzare l'attenzione sul perenne incontro-scontro tra civiltà e wilderness (che, come fa notare Costantini nella prefazione al libro, risulta essere la tematica forse più frequentata nell'ambito della cultura americana); Adams farà non a caso parte di un gruppo di fotografi denominati "Nuovi Topografi", dal titolo della mostra che li vide protagonisti, The New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape ('I Nuovi Topografi: fotografi del paesaggio alterato dall'uomo'), tenutasi alla George Eastman House di Rochester nel 1975. I Nuovi Topografi - tra cui spiccano i nomi di Lewis Baltz, Stephen Shore, i coniugi Becher - perseguivano un ideale fotografico per certi aspetti opposto a quello esemplificato dalle immagini di un Ansel Adams: laddove quest'ultimo mirava a rappresentare la maestosità dell'incontaminato ritraendo vasti e intonsi scenari naturali come quelli dello Yosemite, essi invece optavano per una visione meno romantica, ma senza dubbio più realistica, del paesaggio americano.

Ma attenzione: Adams prende sì atto di un innegabile degrado, ma non per giudicarlo, né per intonare un inutile lamento funebre in memoria di una purezza idilliaca miseramente violentata e perduta; al contrario: la funzione dell'atto fotografico diventa infatti quella di «documentare la forma sottesa a questo apparente caos», o, per dirla altrimenti, di svelare la testarda bellezza di quei luoghi, capace di resistere ad ogni vessazione umana, rintracciando un nuovo ordine fuori e dentro di sé, estetico ed esistenziale insieme. To Make It Home, recita il titolo di un'importante monografia dedicata ad Adams nel 1990: 'rendere familiare', e dunque nuovamente abitabile, un luogo di cui percepivamo solo l'ostilità; individuare la coerenza di una nuova verità ed imparare ad accettarla, nonostante tutto. Per poi scoprire - parafrasando un'affermazione di Adams citata nella quarta di copertina - come questo potere non dimori nelle potenzialità di un'apparecchiatura fotografica, bensì esclusivamente nei nostri occhi. Una motivazione profondamente umana e sofferta in cui molti, immagino, avranno modo di riconoscersi.

Il libro di cui ci occupiamo non ci presenta però l'Adams fotografo, bensì quello critico, impegnato in un'analisi teorica contraddistinta da una non comune capacità comunicativa che rende la lettura di questi brevi saggi fluida e piacevole: chiarezza e moralità sono infatti gli elementi essenziali, per Adams; quelli senza i quali non può darsi "critica" degna di questo nome («I critici migliori hanno il coraggio di correre costantemente il rischio più grande: dimenticare se stessi», senza quindi sviare l'attenzione dalle immagini, intontendo il lettore con le loro "belle parole"; così si esprime Adams nel saggio Buone notizie, palesando una posizione coraggiosamente onesta e controcorrente).
Nel testo che dà il titolo alla raccolta, Adams esprime il suo punto di vista su un parametro relativo per antonomasia: la Bellezza, appunto; ci propone un'opinione soggettiva che, se anche potrà trovarci in disaccordo, ci spronerà comunque ad interrogarci sull'argomento. La riflessione di Adams, in sostanza, fa coincidere la Bellezza - nella fotografia così come nell'arte in generale - con il parametro della Forma, o, se si vuole, della composizione (quel "vestito" che il fotografo o il pittore fanno indossare al reale, in modo da fornirgli un'apparenza migliore); Forma, a sua volta, intesa come sinonimo della coerenza e della struttura sottese alla vita. «Perché la forma è bella? - si chiede Adams: - Lo è, perché ci aiuta ad affrontare la nostra paura peggiore, cioè a dire il timore che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non abbia dunque alcun senso»; quasi che l'uomo fosse portato a chiamare "bello" - e dunque a connotare positivamente - quell'elemento (la Forma) che ha in sé il potere di consolarlo, rassicurandolo sull'esistenza di un ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo circonda. Ma per far sì che questa ordinata struttura emerga in superficie, rendendosi percepibile, la Forma (e, di conseguenza, la Bellezza) presuppone necessariamente un'astrazione, una semplificazione: in ogni caso, mai una semplice rappresentazione; detto altrimenti: secondo Adams, l'arte, per rivelare la Forma (e dunque il Bello, che tradizionalmente è considerato il fine principale di ogni creazione artistica), deve spesso e volentieri "prendersi delle libertà" nei confronti del reale. Ecco quindi che la categoria astratta del Bello, contrariamente al solito, in questo caso non presuppone la rima obbligata con Buono e Vero (argomento, questo, trattato in particolare nel saggio Fotografare il male, in cui anche le eventuali "manipolazioni" da parte del fotografo vengono considerate, alla luce delle riflessioni appena esposte, legittime).

Al contrario di quanto qualcuno sarà forse portato a pensare, l'eloquio di Adams è ben lungi dall'essere confinato in una dimensione astratta: ogni affermazione è infatti supportata da esempi concreti, che tirano in ballo immagini conosciute e nomi celebri - da Diane Arbus a Edward Weston, a Paul Strand, a Alfred Stieglitz e numerosi altri -, rendendo il tutto molto più comprensibile e, soprattutto, verificabile in base alla propria sensibilità. Il discorso su Bellezza e Forma non è che un tassello della sua riflessione teorica, un assaggio di quanto possano essere stimolanti i quesiti che ci pone in queste pagine. Il posto d'onore è comunque assegnato a quello che è il tema principale del suo essere fotografo: il paesaggio, in special modo quell'Ovest americano a cui Adams dedica pagine intense, in cui emozione ed affezione risultano evidenti; un'immensità filtrata non solo dal suo sguardo, ma anche da quello di pionieri come Timothy O'Sullivan (particolarmente caro ad Adams), o da autori moderni quali Minor White e Frank Gohlke.

Robert Adams, in conclusione, ci regala un esempio di critica fotografica fatta, una volta tanto, non solo con la freddezza della mente o con la presunzione del "mestiere", ma anche e soprattutto con il calore del cuore. Caratteristica purtroppo sempre più rara, e dunque ancor più preziosa.

Nora Dal Monte © 09/2007
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SOMMARIO: Introduzione di Paolo Costantini - Premessa - Prefazione alla seconda edizione - Verità e paesaggio - La bellezza in fotografia - Buone notizie - Fotografare il male - Rinnovare l'arte - Riconciliazione con la geografia: Minor White, Frank Gohlke, C.A. Hickman - Appendice Alla ricerca di un silenzio adeguato. Il volume ha un piccolo inserto in cui sono riportate alcune foto (in bianconero) rappresentative degli autori di volta in volta citati nel testo, tra cui Edward Weston, Robert Capa, Diane Arbus, Alfred Stieglitz, Dorothea Lange, Timothy H. O'Sullivan, Minor White, Lewis Hine.