THE PHOTOGRAPHER'S EYE
di John Szarkowski
Agostino Maiello, dicembre 2015

Nadir Magazine ©John Szarkowski (1925-2007) è stato per quasi trent'anni il direttore della sezione Fotografia del Museo di Arte Moderna di New York (il famoso MOMA), succedendo a Edward Steichen nel 1962. Come tale, ha avuto per lunghissimo tempo un ruolo di primo piano nell'evoluzione dei linguaggi e degli indirizzi espressivi della fotografia mondiale. Ha organizzato oltre 160 mostre (dando visibilità ad autori quali Bill Brandt, William Eggleston, Elliott Erwitt, Walker Evans, Lee Friedlander, Andre Kertesz, Diane Arbus, Garry Winogrand…) e scritto diversi libri. Una delle sue opere più famose è "L'occhio del fotografo", basato sull'omonima esposizione tenutasi (ovviamente al MOMA) nel 1964; il volume è diventato un classico della fotografia, e davvero non può mancare nella biblioteca di un cultore della materia. Pubblicato originariamente nel 1966, è facilmente reperibile (nell'edizione del 2007) tramite le solite librerie online e non solo (ISBN 978-0-87070-527-4).

Nel breve saggio che introduce il libro, Szarkowski (d'ora in poi S.) manifesta la sua visione della fotografia come pratica artistica autonoma, che si differenzia dalla pittura (forma d'arte con cui, fin dalla sua nascita, la fotografia ha dovuto volente o nolente fare i conti) in quanto basata sulla sintesi piuttosto che sulla selezione. Il pittore, dice S., crea la sua opera dal nulla: dinanzi ad una scena, ha la piena facoltà di riprodurre sulla tela (fedelmente o meno) ciò che desidera rappresentare, e di ignorare ciò che vuole ignorare ("i dipinti si fanno; le foto si prendono"). Un fotografo, di fronte alla stessa scena, non ha la stessa facoltà (del resto, S. scriveva ben prima dell'avvento di Photoshop…). E dunque, come può questo processo generare delle opere d'arte? La risposta di S. è che la fotografia è qualcosa di nuovo, che non può essere definito e qualificato sulla base delle teorie già esistenti in materia di arti visive; "il fotografo deve trovare nuove strade per rendere manifesto ciò che intende dire". E chi ha trovato queste nuove strade? I fotografi, tutti, proprio nello scattare fotografie. E' stata cioè la pratica fotografica stessa, man mano che i fotografi prendevano coscienza delle potenzialità del mezzo, a definirne i canoni. Quale sia la vera essenza della fotografia, insomma, ce lo dicono proprio le fotografie. Tutte: quelle scattate dai grandi autori, quelle scattate dai fotoamatori della domenica, quelle realizzate dai professionisti per soddisfare le più disparate esigenze di ogni tipo di committenza.

Se questo approccio è valido, allora "dovrebbe essere possibile considerare la storia del mezzo fotografico in termini di una progressiva consapevolezza, da parte dei fotografi, delle caratteristiche e dei problemi che sono apparsi essere inerenti al mezzo stesso". Nello specifico, S. individua cinque caratteristiche le quali, a suo parere, fanno sì che una fotografia (cioè un'immagine ottenuta mediante un processo fotografico) sia una fotografia: sia cioè la manifestazione concreta (bella o brutta, dotata di valore artistico o meno, e così via) di una specifica pratica espressiva che è, anche, forma d'arte: la fotografia.
Tali caratteristiche sono: il soggetto stesso (the thing itself), il dettaglio, il tempo, il fotogramma, il punto di vista (in senso prossemico, non morale. Il punto di ripresa, insomma). Il libro è, di fatto, una carrellata di immagini, scattate nell'arco di 125 anni e ripartite nelle cinque categorie suddette. Le foto (172) non sono tutte belle, perché non sono state selezionate per piacere o colpire o stupire: sono state selezionate in quanto esempio, ciascuna, della presenza degli elementi di cui sopra. "La visione che [queste immagini] condividono non appartiene ad alcuna scuola o teoria estetica, bensì alla fotografia stessa".
The thing itself si riferisce al fatto che la fotografia è, in ogni caso, una rappresentazione di un qualcosa di reale, qualcosa cioè che si trova dinanzi all'obiettivo in quel momento ("in maniera più convincente di qualsiasi altro tipo di immagine, la fotografia evoca la tangibile presenza della realtà. L'accettazione più ampia e l'utilizzo più tipico della fotografia sono stati il fungere da sostituta del soggetto stesso"). Questo è un punto di partenza inevitabile, sul quale poi si innestano le scelte e la sensibilità interpretativa del fotografo, specie sul come gestire la non coincidenza tra il reale ed il reale una volta fotografato.

Quella del dettaglio è, in un certo senso, una conseguenza della caratteristica precedente: proprio perché rappresenta una porzione di reale, ecco che la fotografia ha la capacità di cogliere un frammento, un dettaglio appunto, tramite il quale rappresentare (raccontare, simboleggiare) qualcosa di più ampio – anche e soprattutto qualcosa che ad una visione d'insieme era sfuggito; qualcosa di nascosto, di non apparente, che la fotografia disvela proprio grazie a questa sua capacità. Non lontano da questo concetto c'è quello di fotogramma (ma l'originale frame rende meglio l'idea, perché significa principalmente cornice, riquadro): i bordi di un frame stabiliscono, infatti, cosa sta dentro una fotografia e cosa fuori. Il fotografo, nella scelta della composizione, determina cosa includere e cosa no nell'immagine; come si diceva all'inizio, la fotografia è selezione, e questa caratteristica ne è la manifestazione più radicale. Scegliendo di cosa popolare un'immagine, ritagliando, accostando e isolando porzioni di reale il fotografo può dare vita a relazioni inizialmente impensabili e non-viste tra soggetti; relazioni assenti dal quadro globale e che prendono corpo proprio in funzione della selezione operata da chi scatta.

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Il tempo è la caratteristica successiva di cui parla S. La fotografia è sempre la rappresentazione di un presente, al tempo dello scatto - ma non di un istante: "di fatto non esiste la fotografia istantanea"; non può rappresentare il passato od il futuro, ma può solo alludervi (peraltro, su questo come su altri aspetti del discorso di S. non è inutile richiamare le riflessioni di Barthes nel suo altrettanto noto La camera chiara). Nel processo fotografico c'è, necessariamente, un tempo di esposizione, la cui durata si riverbera sul piano estetico: S. fa l'esempio sia dei tempi lunghi (di fatto obbligatori agli inizi della fotografia, a causa della scarsa sensibilità di lastre e pellicole), che hanno dato vita ad immagini mai viste prima – il valore creativo del mosso è del resto cosa nota; che dei tempi veloci, che consentono di fermare su una fotografia una serie di dettagli che, nel dinamismo del reale, non sarebbe stato possibile cogliere a occhio nudo ("…la bellezza… di linee e forme fino a quel momento nascoste dal flusso del movimento"); è il momento decisivo di Bresson, che S. richiama esplicitamente, spesso mal interpretato nel senso di momento culminante, di climax di un'azione in corso, laddove HCB intendeva altro: "è decisivo non per quanto sta accadendo, ma perché in quel momento il flusso di forme e di motivi (pattern) in movimento raggiunge un equilibrio, una chiarezza ed un ordine – perché l'immagine, per un istante, diventa una fotografia (picture)".

L'ultima caratteristica di cui parla S. è quella del punto di ripresa. E' vero che il fotografo ha dinanzi un reale ineluttabile, ma egli può muoversi o muovere la fotocamera, scegliendo o scoprendo angoli e prospettive. Così facendo il fotografo apprende che "l'aspetto del mondo è più ricco e complesso di quanto immaginato", che le fotografie possono "rivelare non solo la chiarezza ma anche l'oscurità delle cose, e che queste immagini misteriose e sfuggenti possono anche apparire, a modo loro, ordinate e colme di significato".
L'esposizione di S. mira, in estrema sintesi, a definire la fotografia come forma d'arte autonoma proprio in virtù delle cinque specifiche caratteristiche che abbiamo sommariamente descritto. Naturalmente il dibattito è aperto ed esiste un'ampia letteratura a riguardo, ma ogni considerazione ulteriore che si volesse fare non può prescindere da un elemento: al tempo della mostra in questione, la fotografia non era ancora stata pienamente sdoganata in quanto forma d'arte alla pari delle arti tradizionali – tale processo si sarebbe realizzato in maniera più compiuta nel decennio successivo; appare dunque evidente il valore didattico di questo scritto (e della connessa mostra, naturalmente), volto ad evidenziare le specifiche qualità della fotografia, capaci di darle dignità e di differenziarla dalle altre, più consolidate pratiche espressive.

Agostino Maiello © 12/2015
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