TUTTO SULLE ABERRAZIONI OTTICHE
Dalle lenti agli obiettivi
Michele Vacchiano, settembre 2003

Le aberrazioni: se le conosci le eviti? No, ma in qualche caso le puoi neutralizzare. Ma sono poi così terribili? In questo articolo spiegazioni e risposte.

Aberrazioni ottiche. Già di suo l'espressione fa paura. Aberrazioni. Suona anormale, inquietante, rievoca deviazioni e anomalie, comportamenti distorti e perturbati. Aberranti, appunto.

Invece non c'è nulla di più naturale, dato che le aberrazioni sono insite nella natura stessa delle lenti. Sono una conseguenza dell'ottica geometrica, un sottoprodotto obbligato della fisica ondulatoria. Come recita un proverbio valdostano, non puoi tagliare il pane senza fare le briciole, e le aberrazioni sono appunto le briciole, ineluttabili, della progettazione ottica.

Ineluttabili? Beh, sì, ma anche l'inevitabile ha diverse misure e tutto sommato i progettisti riescono a fare miracoli.

Per spiegare in modo ragionevolmente comprensibile che cosa sono e che effetti hanno le aberrazioni ottiche, bisogna partire da Adamo ed Eva e cercare di capire che cosa avviene a un raggio di luce che viaggia libero nello spazio e che d'improvviso è costretto a cambiare ambiente. Dall'aria all'acqua, dal vuoto all'aria, o ancora dall'aria al vetro, il raggio che viaggiava tranquillo e in linea retta, obbedendo ai postulati più granitici dello spazio euclideo, viene improvvisamente deviato, cioè rifratto. Questo è il motivo per cui un remo immerso nell'acqua sembra spezzato, ed è anche il motivo per cui quando osserviamo le stelle esse non si trovano nel punto in cui noi crediamo di vederle, dato che i raggi luminosi, passando dal vuoto cosmico all'atmosfera terrestre, vengono - se pur di poco - deviati.

Ogni mezzo ha il suo indice di rifrazione, che è la capacità di deviare i raggi luminosi secondo un angolo più o meno pronunciato. L'indice di rifrazione dipende dalla densità del mezzo e dalle sue caratteristiche chimico-fisiche. L'indice di rifrazione si identifica con la lettera "n". Il vuoto ha un n pari a 1, l'aria poco di più. L'acqua ha un n di 1,33, mentre il vetro varia tra 1,4 e 1,7. Il diamante, infine, raggiunge un n pari a 2,4. Se gli obiettivi fossero fatti di diamante, si potrebbero costruire lenti sottilissime.

Attenzione: l'indice di rifrazione di ogni mezzo si riferisce sempre ad una luce monocromatica, avente una ben precisa lunghezza d'onda. Se cambia la lunghezza d'onda della luce cambia anche l'indice di rifrazione. Questo importante concetto ritornerà tra poco, quando parleremo delle aberrazioni cromatiche. Se il raggio di luce, dopo essere penetrato nel mezzo rifrangente, ne emerge di nuovo, esso verrà nuovamente rifratto, secondo un angolo uguale a quello con cui era stato deviato la prima volta.

Se le lenti avessero superfici piane e parallele come la lastra di vetro illustrata nella figura qui sopra, il discorso sarebbe finito, e invece...

E invece le lenti sono calotte sferiche, il che complica notevolmente le cose. Queste complicazioni prendono il nome, appunto, di aberrazioni, e sono di due tipi: aberrazioni cromatiche (che riguardano cioè la natura della luce in quanto somma di diverse lunghezze d'onda) e geometriche (che derivano cioè dalla forma della lente).

Le aberrazioni cromatiche
Che cosa accade quando un raggio di luce bianca colpisce un prisma? Lo sappiamo fin da quando sedevamo sui banchi delle elementari: il raggio di luce bianca viene scomposto nelle sue componenti (le diverse lunghezze d'onda della luce visibile) e disperso nei suoi diversi colori.

Perché accade questo? Semplicemente perché, come abbiamo detto poco sopra, l'indice di rifrazione dipende non solo dal mezzo che la luce attraversa, ma anche dalla lunghezza d'onda della luce stessa. In altre parole, le diverse lunghezze d'onda determinano, nello stesso mezzo, diversi valori di n. Le lunghezze d'onda più corte (azzurro) vengono rifratte secondo un angolo maggiore di quelle più elevate (rosso).

La lente, essendo una calotta sferica, si comporta come una serie infinita di prismi sovrapposti.

Immaginiamo adesso che cosa accade quando un raggio di luce bianca, parallelo all'asse ottico, attraversa la lente: esso verrà scomposto nelle sue componenti e queste andranno a focalizzarsi in punti diversi lungo l'asse ottico: più vicine alla lente quelle azzurre, più lontane quelle rosse.

Quella che abbiamo appena descritta è l'aberrazione cromatica assiale (o lineare).

La curva caratteristica che descrive l'aberrazione cromatica lineare è simile a quella pubblicata qui sotto. Sull'asse orizzontale sono riportate, in nanometri, le diverse lunghezze d'onda della luce, dal blu al rosso; sull'asse verticale è espresso, in decimi di millimetro, lo spostamento di messa a fuoco rispetto al piano focale, indicato con lo zero.

Un obiettivo è tanto più corretto dall'aberrazione cromatica quanto più la linea si mantiene orizzontale e coincidente con lo zero.

Se invece il raggio di luce colpisce obliquamente la lente, le diverse lunghezze d'onda - rifratte secondo angoli differenti - si focalizzano in punti diversi del piano focale, dando origine a sfrangiature colorate intorno ai punti immagine. Un punto di luce bianca appare così come un grappolo di cerchietti colorati. Si parla in questo caso di aberrazione cromatica laterale (o extra-assiale).

Il problema dell'aberrazione cromatica era molto sentito dai primi astronomi, che non riuscivano ad eliminare quel fastidioso fenomeno di sfrangiatura colorata intorno ai corpi celesti osservati al telescopio. Bisogna attendere il XVIII secolo per vedere risolta la questione, e vale la pena di raccontare la storia perché è curiosa.

Nel 1733 Chester Moor Hall, avvocato londinese con l'hobby dell'ottica, pensò che fosse possibile correggere l'aberrazione cromatica unendo insieme due lenti, una convergente ed una divergente di minor potere (in modo che l'insieme restasse convergente). Egli però non aveva le capacità e i mezzi necessari per costruire le lenti, per cui decise di affidarsi a gente del mestiere. Non volendo divulgare la sua scoperta, affidò la costruzione delle due lenti a due artigiani diversi. Ma destino volle che entrambi gli artigiani affidassero a loro volta il lavoro a una terza persona (oggi si chiamerebbe subappalto), un certo George Bass, che così si trovò a costruire entrambe le lenti commissionate da Hall. Trattandosi di un artigiano esperto, non gli ci volle molto a scoprire le proprietà acromatiche del doppietto. Si trattava di una scoperta eccezionale che egli subito divulgò tra i colleghi.
Tra questi c'era un certo John Dollond, il quale - contrariamente al generoso e disinteressato Bass - era un vero businessman. Subito infatti (istigato dal figlio Peter, che era il vero furbone di tutta la vicenda) fece domanda per ottenere il brevetto del doppietto acromatico. Era il 1758.
Dollond dovette affrontare numerose cause in tribunale, dato che nel frattempo molti altri ottici avevano iniziato a costruire doppietti acromatici, ma le vinse tutte. Il brevetto gli fu confermato e il povero Hall (il primo che aveva avuto l'idea) rimase a bocca asciutta, dato che il tribunale volle attribuire il merito (e i proventi) della scoperta al suo effettivo e pubblico divulgatore e non a colui che aveva voluto tenerla nascosta.

Nel corso degli anni il doppietto acromatico migliorò le sue prestazioni, finché Fraunhofer, nel secolo successivo, non ebbe l'idea di costruire le due lenti con vetri diversi, aventi perciò un diverso indice di dispersione. Un elemento sarebbe stato realizzato con vetro crown (contenente ossidi di calcio e sodio), l'altro con vetro flint, ricco di ossidi di piombo.

Il doppietto acromatico costituisce ancora oggi la base di gran parte degli schemi ottici usati per i nostri obiettivi, quando addirittura non viene impiegato da solo, come nel caso di costosi obiettivi lungo-fuoco quali i Novoflex e i Leitz Telyt.

Un doppietto acromatico il cui elemento positivo viene "spezzato" in due parti, posizionate alle estremità del sistema con in mezzo l'elemento negativo, costituisce il famoso tripletto di Cooke, base degli schemi Tessar ancor oggi ampiamente utilizzati.

Il ricorso al doppietto acromatico corregge l'aberrazione in base a due colori fondamentali. Tuttavia, anche se il progettista porta a coincidere perfettamente le righe blu e rosse dello spettro, le restanti righe rimangono leggermente sfasate, dato che la correzione cromatica del vetro flint non è lineare per tutte le lunghezze d'onda. Per cui, mettendo a fuoco per la lunghezza d'onda a cui l'occhio è più sensibile (0,56 micron), il rosso e il blu appariranno ancora leggermente sfocati. Questo fenomeno è detto spettro secondario.

L'eliminazione dello spettro secondario si ottiene ricorrendo a vetri speciali a bassa dispersione (vetri alla fluorite o alle terre rare) e portando la correzione su tre lunghezze d'onda. Si hanno così gli obiettivi apocromatici.

Il fotografo può correggere l'aberrazione cromatica lineare (ma non quella laterale) chiudendo il diaframma, in modo che la profondità di fuoco così ottenuta comprenda al suo interno anche i punti immagine che non giacciono sul piano focale, ma che si focalizzano davanti o dietro ad esso.

Le aberrazioni geometriche
Ammettiamo che un raggio di luce monocromatica (cioè tale da eliminare il rischio di aberrazione cromatica) proveniente da un punto posto all'infinito e giacente sull'asse ottico (raggi paralleli) venga rifratto da una lente. La forma della lente è tale da provocare una deviazione dei raggi che la attraversano maggiore ai bordi che al centro. Come conseguenza di questo fenomeno avremo che i raggi passanti in prossimità dei bordi della lente saranno focalizzati in posizione più prossima a questa di quanto non avvenga per i raggi che la attraversano al centro. Questo fenomeno prende il nome di aberrazione sferica.
Il disegno qui sotto illustra l'aberrazione sferica di una lente convergente (o positiva).

Abbinando una lente positiva con una negativa di minor potere (in modo che l'insieme rimanga positivo) è possibile far sì che le due aberrazioni sferiche si sommino algebricamente, annullandosi. In questo modo si portano tanto i raggi rifratti presso i bordi quanto i raggi rifratti presso il centro a convergere in un unico punto.

E' anche possibile correggere questo difetto modificando la curvatura della lente, rendendola irregolare. Le lenti asferiche presentano una curvatura non costante allo scopo di deviare i raggi luminosi facendoli convergere tutti in un unico punto. Le lenti sferiche in resina, prodotte per stampaggio e pertanto economiche, hanno sostituito, in molti obiettivi amatoriali, le lenti asferiche in vetro ottico, che richiedono una lavorazione parzialmente manuale e sono pertanto molto costose.

Data la natura dell'aberrazione sferica, è facile capire come le lenti spesse ne siano affette più che non le lenti sottili. E poiché molti obiettivi grandangolari sono caratterizzati da lenti spesse, si capisce perché sia più difficile correggere l'aberrazione sferica nei grandangolari. I primi grandangolari simmetrici erano caratterizzati da aperture relative massime molto ridotte e non potevano essere usati se non a diaframmi chiusi, essendo affetti da un'aberrazione sferica spaventosa. Il fotografo può ridurre l'aberrazione sferica chiudendo il diaframma: ancora una volta (come già abbiamo detto a proposito dell'aberrazione cromatica assiale), la profondità di fuoco così ottenuta comprende al suo interno i diversi punti immagine "sparpagliati" lungo l'asse ottico.

In un sistema ottico convergente i raggi di luce extra-assiali vengono focalizzati su piani diversi, dando origine ad anelli luminosi provenienti da diverse zone di apertura del sistema. Questi anelli, di grandezza crescente, si sovrappongono parzialmente dando origine ad una macchia a forma di goccia che ricorda la coda di una cometa. Da qui il termine coma. Per quanto riguarda il genere, ci preme sottolineare che il termine "coma", inteso in senso ottico, è femminile, dato che deriva dalla parola greca che denota, appunto, la coda della cometa (italiano "chioma"). Si dice pertanto "la coma" e non "il coma", che è uno stadio profondo di incoscienza indotto da grave sofferenza cerebrale. Molti manuali cadono in errore e scrivono "il coma" anche per descrivere questa aberrazione.

Se la "coda" della cometa (cioè la parte panciuta della goccia) è rivolta verso l'asse ottico si parla di "coma interna"; se invece essa è rivolta verso i bordi della lente si parla di "coma esterna". Il disegno qui sotto illustra un caso di coma esterna.

Nel disegno si vede come l'immagine di un punto P situato fuori dall'asse ottico sia data dall'intera superficie della lente, la quale focalizza i raggi luminosi in diversi punti (P', P'', P''') del piano focale. Quanto più ci si discosta dall'asse ottico, tanto più i cerchi risultanti si fanno grandi e poco luminosi.

La coma è la disperazione degli astrofili, perché i telescopi a rifrazione affetti da coma trasformano le stelle prossime ai bordi del campo in graziose quanto improbabili goccioline, disturbandone l'osservazione. Personalmente ho osservato un pesante grado di coma in un obiettivo per il piccolo formato, non progettato per le brevi distanze di ripresa, montato invertito su un soffietto per raggiungere forti rapporti di riproduzione. Questa è una delle ragioni che sconsigliano l'adozione di obiettivi tradizionali in macrofotografia e che fanno preferire gli obiettivi macro, specificamente corretti per lavorare da vicino.

La correzione della coma è complessa, anche perché alla coma del terzo ordine (aberrazione di Seidel) si aggiungono quelle di ordine superiore. Alle aberrazioni di quinto ordine appartiene ad esempio la coma ellittica, che genera anelli luminosi non circolari.

Poiché la lente è una calotta sferica, i diversi punti-immagine non si focalizzano su una superficie piana, ma su una superficie sferica, detta superficie di Petzval. Questo difetto prende il nome di curvatura di campo. La somma di Petzval indica il raggio di curvatura di questa superficie sferica, che può essere concava o convessa, a seconda che la somma di Petzval sia positiva o negativa. I normali obiettivi anastigmatici (come ad esempio gli schemi simmetrici e i derivati dal tripletto di Cooke) sono caratterizzati da una somma di Petzval positiva: la calotta sferica appare concava. Al contrario in certi schemi a teleobiettivo la somma di Petzval, negativa, rende convessa la superficie sferica. Non potendo incurvare la pellicola, il progettista deve fare in modo che la somma di Petzval risulti il più possibile vicina allo zero. Ma poiché in questo modo si provoca l'insorgere di altre aberrazioni, prima fra tutte l'astigmatismo, ecco che ancora una volta si rende necessario progettare il disegno ottico in modo da raggiungere un ragionevole compromesso fra aberrazioni diverse che fra loro si compensano. Nel caso in questione la curvatura di campo viene corretta introducendo un moderato grado di astigmatismo.

La correzione dell'astigmatismo è piuttosto complessa in fase di progettazione e come già detto deve procedere di pari passo con la correzione della curvatura di campo. In fase di ripresa, l'aumentata profondità focale derivante dalla diaframmatura è in grado di ridurre gli effetti di entrambe le aberrazioni.

La curvatura di campo e l'astigmatismo sono descritti da curve simili a quella qui sotto pubblicata:

Sull'asse orizzontale è riportata la distanza dall'asse ottico, sull'asse verticale lo spostamento di messa a fuoco espresso in millesimi di millimetro. La linea continua si riferisce alla messa a fuoco di un'immagine radiale, la linea tratteggiata alla messa a fuoco di un'immagine tangenziale. Poiché le due linee non sono sovrapposte, possiamo dedurne che l'obiettivo in esame è affetto da astigmatismo. Curvatura di campo e astigmatismo vanno sempre riferiti a una determinata apertura relativa.

Esiste anche un astigmatismo di ordine superiore al terzo, la cui descrizione esula dagli scopi di un articolo a carattere divulgativo come questo. Occorre tuttavia sottolineare un fatto importante, che solitamente è ignorato dall'utilizzatore non esperto, e cioè che la correzione di questo tipo di astigmatismo avviene tenendo conto del preciso formato di ripresa che ogni obiettivo è destinato a coprire. Di conseguenza - compatibilmente con le esigenze di ripresa - è importante utilizzare obiettivi progettati per il formato che si sta usando. Utilizzare obiettivi progettati per un formato molto superiore causerebbe un calo di qualità dovuto al fatto che l'astigmatismo viene calcolato in modo da evitare grosse perdite ai bordi, sacrificando leggermente la resa nella zona centrale: il guaio è che la zona centrale è proprio quella che si usa montando un obiettivo su un apparecchio di formato più piccolo. A questo si aggiungano le perdite di nitidezza dovute alle interriflessioni derivanti dall'eccesso di campo coperto.
Tutti quei dispositivi (proposti dai fabbricanti di camere professionali quali Horseman e Wista) che permettono di usare la reflex come dorso di un apparecchio a banco ottico, montandovi obiettivi destinati al grande formato, possono essere comodi (ma costosi!) espedienti per superare i limiti oggettivi delle macchine a corpi fissi, ma non aiutano certo a migliorare la qualità dell'immagine! Lo stesso accade quando si monta un obiettivo Hasselblad su una Contax, nell'illusoria convinzione che un'ottica così "professionale" e costosa migliorerà sensibilmente la qualità dell'immagine: abbiamo visto come nella realtà avvenga esattamente l'opposto.
Nel grande formato le cose non sono molto diverse. A volte si ha bisogno di un grande cerchio di copertura e allora si montano sul 4x5" ottiche progettate per coprire il formato 8x10". Ma così facendo si deve essere consapevoli del rischio che si corre. Come sempre, anche in questo caso le scelte del fotografo sono dettate dal tentativo di conciliare esigenze diverse e si risolvono, alla fine, nel raggiungimento di un compromesso accettabile.

La distorsione provoca un incurvamento delle linee trasversali dell'immagine derivante dal variare della distanza dall'asse di ripresa. La distorsione a cuscinetto fa sì che le linee trasversali si incurvino verso il centro; la distorsione a barilotto le rende curve verso l'esterno.

La curva che rappresenta la distorsione è simile a quella riprodotta nella figura qui sopra a destra. Sull'asse orizzontale è riportata la distanza dal centro dell'immagine in millimetri; sull'asse verticale l'entità della distorsione calcolata in percentuale dell'altezza dell'immagine. Quanto più la linea si mantiene piatta e coincidente con la linea dello zero, tanto più la distorsione è corretta. Nel caso illustrato l'obiettivo in esame soffre di una distorsione accentuata verso i valori negativi (distorsione a barilotto).

Gli obiettivi moderni sono generalmente ben corretti dalla distorsione, ad eccezione degli obiettivi zoom e di certi moltiplicatori di focale. Si tratta di un difetto poco importante per chi fotografa persone o paesaggi, ma che diventa pregiudiziale nella fotografia di architettura e nella riproduzione di documenti scritti. La distorsione deve essere corretta in fase di progettazione: nessun intervento del fotografo è in grado di eliminarla.

Se si eccettuano rari obiettivi appositamente progettati, qualunque sistema ottico attraversato dalla luce genera, sul piano focale, una differenza di brillanza fra centro e bordi del campo. Questo fenomeno, detto semplicemente caduta di luce ai bordi, dipende dalle leggi dell'ottica geometrica e non è imputabile ad una cattiva progettazione. Il fenomeno è di solito più evidente negli obiettivi di corta focale, nei quali la differenza di brillanza può raggiungere i due EV tra centro e bordi. Per questo si utilizzano i filtri digradanti centrali (center filter), che sono trasparenti ai bordi e più scuri al centro proprio per compensare la vignettatura. Ovviamente non esiste un center filter adatto a tutti gli obiettivi, dato che per ogni focale ed ogni schema ottico la caduta di luce ai bordi ha un diverso valore e una diversa distribuzione geometrica: ne consegue che ogni obiettivo ha il suo filtro dedicato.

A peggiorare la situazione interviene il fenomeno della vignettatura, illustrato nel disegno qui sotto.

Come si vede, il diametro di un fascio di raggi che colpisce l'obiettivo obliquamente risulta minore del diametro di un fascio assiale. Ne deriva una riduzione della brillanza tanto maggiore quanto più il punto-immagine è lontano dall'asse ottico. Anche questo è un fatto geometrico e non dipende dalla progettazione dell'obiettivo. Va detto tuttavia che un uso controllato della vignettatura serve al progettista per temere sotto controllo certe aberrazioni extra-assiali.

La perdita di luminosità ai bordi, dovuta tanto alle caratteristiche geometriche delle lenti quanto alla vignettatura propriamente detta, è rappresentata da una curva come questa:

Il valore della caduta di luce viene sempre riferito a una ben precisa apertura relativa, dato che il fenomeno diventa sempre meno evidente col chiudersi del diaframma. Sull'asse orizzontale sono riportate le distanze dall'asse ottico, coincidente col punto d'origine delle coordinate cartesiane., sull'asse verticale è riportata, in valori di diaframma, la caduta di luminosità.

Non bisogna confondere questa vignettatura per così dire "fisiologica" con la vignettatura meccanica provocata dal fotografo, la quale può derivare ad esempio da un paraluce troppo stretto, da un compendium troppo esteso o da un obiettivo decentrato o basculato oltre il cerchio di copertura. In quest'ultimo caso va detto che un utilizzo sapiente della vignettatura può salvare un'immagine affetta da cieli slavati e insignificanti. Decentrando l'obiettivo fino a sfiorare il limite del cerchio di copertura (senza però raggiungerlo o - peggio - superarlo!) si provoca una vignettatura meccanica in corrispondenza del cielo e un suo conseguente scurimento. Ovviamente lo stesso espediente può essere adottato per compensare i contrasti tra un primo piano troppo luminoso e uno sfondo più scuro.

La trasmissione della luce e il problema dei riflessi
Non sono aberrazioni nel senso proprio del termine, ma i riflessi parassiti, le immagini fantasma e il flare, quell'effetto di foschia o appannamento che affligge certe riprese controluce, sono davvero fastidiosi. E' per questo che ne parliamo qui.

Quando un raggio di luce colpisce una lente, esso ne viene in parte rifratto e in parte riflesso. E' come quando si illumina una finestra con una torcia elettrica per vedere all'interno: chi sta al di là della finestra vede la luce, ma anche chi tiene la torcia in mano la vede, perché essa è in parte riflessa dal vetro. Questa riflessione causa in primo luogo una diminuzione della quantità di energia trasmessa attraverso la lente; poi una perdita di nitidezza dovuta ai riflessi interni al sistema ottico. Quanto più questo è complesso (cioè quanto maggiore è il numero di lenti) tanto maggiori si rivelano questi rischi. Avviene così che all'interno dell'obiettivo viaggia un eccesso di luce inutile alla formazione dell'immagine, ma capace di abbassarne notevolmente il contrasto. E' per questo che gli obiettivi zoom, caratterizzati da un elevato numero di elementi, sono i più soggetti al fenomeno.

Indicando con a l'indice di rifrazione dell'aria e con v l'indice di rifrazione del vetro, possiamo quantificare la perdita percentuale di energia luminosa (P) applicando la seguente formula:

P=[(v-a)/(v+a)]x[(va)/(v+a)]x100

Ad esempio, una sola lente con indice di rifrazione pari a 1,5 operante nell'aria (indice di rifrazione praticamente pari a 1) causerà una perdita di energia del 4%. si capisce come un sistema composto da molte lenti giunga a ridurre a livelli non più tollerabili la quantità di luce che giunge al piano focale.

Tuttavia, depositando su ogni lente uno strato chimico avente un indice di rifrazione intermedio fra quello dell'aria e quello del vetro, si otterrà, applicando la formula prima considerata, una diminuzione della perdita percentuale di luce. Se ad esempio lo strato antiriflesso avesse un indice di rifrazione pari a 1,25, avremmo come risultato dell'equazione una perdita percentuale di energia pari a 1,23 nel passaggio dall'aria allo strato antiriflesso, e pari a 0,83 nel passaggio da questo al vetro. Sommando i due risultati avremmo una perdita del 2,06%, che è quasi la metà del valore ottenuto senza trattamento antiriflesso. Aumentando il numero degli strati si diminuisce proporzionalmente la perdita di energia e contestualmente si "bloccano" le riflessioni parassite.

Il testo dell'articolo è liberamente tratto dal libro di Michele Vacchiano La riproduzione fotografica di documenti, Bologna, Zanichelli, 1987. Testo e immagini di esclusiva proprietà dell'autore.

Michele Vacchiano © 09/2003
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