ATTIMI DI ETERNITA'
La fotografia e l'atto del guardare
Carlo Riggi, luglio 2011

La fotografia si sostanzia in un atto, semplice e complesso insieme: guardare. Il fotografo rinuncia allo strapotere del desiderio e si tuffa intensamente nel dato. Egli attinge al reale utilizzando la fotocamera come apparato ausiliario della mente, il “terzo occhio”. Osserva tutto, le piccole cose, i dettagli più insignificanti, le forme banali di ogni giorno, forte di un’attrezzatura che gli permette di riplasmarle aggiungendo allo sguardo fotografico il minimo indispensabile di abilità artigianale.

Il reportage è stato per ogni fotografo il mito originario, ma oggi per la gran parte di noi è solo l’espressione di un falso sé, un gioco a “facciamo che io sono...”, giacché quasi tutto ormai è stato testimoniato e il nostro desiderio di contribuire alla conoscenza del mondo e dei suoi riti risponde a spirito di emulazione più che a reale vocazione sociale. Non a caso il reportage - a parte casi particolari - è stato ormai rideterminato come “street photography”, cioè rappresentazione del quotidiano, della occasionalità, e dunque del nostro stesso essere calati nel mondo. Va valorizzata allora questa franca consapevolezza del bisogno di mostrare se stessi e di scoprire la propria relazione con l’ambiente, la propria connotazione e i propri confini attraverso il rapporto con le cose, indagando le forme, interrogando la materia. Scoprire quel che le superfici, se adeguatamente osservate, possono dirci di noi e restituirlo in una valida dimensione estetica. Una foto può considerarsi riuscita non più quando mostra qualcosa di inedito, ma quando rende eterno uno scorcio di quotidianità. Fotografare è realizzare attimi di eternità.

Trovare attimi di eternità nella nostra vita di ogni giorno rappresenta la più efficace difesa di fronte all’angoscia della morte. Non ottenuta attraverso una delirante ricerca dell’immortalità o un’illusione di eterna giovinezza, ma operando una consapevole e matura elaborazione di senso riguardo i nostri gesti e le nostre esperienze, anche quelle percettive. Attribuire ad una scena il carattere dell’eterno significa accedere alla categoria del sublime. “Sublimare” i nostri stimoli grezzi, siano essi esterni oppure interni, per dar loro una valenza di condivisione universale, ritrovando in essi - pur minimi e periferici - una centralità esistenziale.
Tutto questo ha a che fare con la bellezza. La bellezza è un valore difficilmente identificabile, impossibile da congelare entro canoni in continua evoluzione. Non ho titolo per tentare di individuare o classificare tali parametri. Quello a cui aspiro è una creatività che sappia tenersi libera all’interno di una costellazione di regole, che sappia affrancarsi dalla volgarità e aspirare al sublime mantenendo una salda coerenza interna e una efficace funzionalità catartica. Tutto questo ha a che fare col “bello”. Non perché l’estetica debba sostituire l’etica, ma perché aistetikòs è ciò che ci permette di “sentire”. L’in-estetico è anche an-estetico: la volgarità limita la possibilità di percepire, non veicola significati né senso, lì dove, invece, l’armonia e l’eleganza rappresentano il veicolo privilegiato del pensiero.

Attimi di eternità sono quelli raccolti nei nostri vecchi album di famiglia, secondo alcuni la destinazione più nobile per una fotografia. Attimi di eternità sono potenzialmente presenti in ogni scorcio. Occorre avere la capacità di esserci - requisito indispensabile per ogni fotografo - e saper attendere, rimanendo in ascolto. Prima o poi qualcosa succede, la materia ci parla, si configura in un’armonia unica e irripetibile, ed è in quel momento che lo scatto può cogliere l’istante, regalandogli il dono dell’immortalità.
Ogni volta che succede, in qualunque punto remoto della Terra, un autore spinge l’intera umanità un gradino avanti verso quell’asintoto che chiamiamo felicità.

Carlo Riggi @ 07/2011
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Foto di Romano Sansone

Foto di Paolo Cardone

Foto di Riccardo Masi