CERVI, LEICA E SURGELATI FINDUS: DIVAGAZIONI DEMENZIALI (MA NON TROPPO)
Michele Vacchiano, febbraio 2002

In un ricettario piemontese del Settecento ho trovato una ricetta che inizia così: "Si prenda un cervo..."

Si prenda un cervo! Accidenti, ma ci pensate? Bisognava prima di tutto prenderlo, il bestio, e già non era come bersi una birra. Poi bisognava in qualche modo scuoiarlo, farlo a pezzi, pulirlo... Insomma, al cuoco di allora toccava un bel po' di lavoro prima di poter presentare agli ospiti un piatto di cervo al civet. Poi le cose incominciarono a farsi più semplici. I cuochi presero a rivolgersi ai macellai che vendevano il cervo già scuoiato e fatto a pezzi; e questi a loro volta lo acquistavano dai cacciatori che provvedevano ad ucciderlo. Poi si scoprì che era più produttivo allevare i cervi nei recinti invece che andarseli a cercare col lanternino in mezzo ai boschi, così costavano meno e la gente ne comperava di più... Passarono gli anni ed oggi il cervo lo trovi surgelato in vaschette, già con il suo civet a base di erbe e spezie. Non sai da dove arriva, non sai che vino hanno usato per la salsa, non sai neppure se quello che mangi è carne di cervo o di capibara dell'Amazzonia, ma insomma c'è scritto cervo al civet e tu ti fidi.

Ne è passato di tempo, e chissà, forse se n'è andata gran parte del divertimento. Ma dovete ammettere che se oggi dovessimo fare come i nostri nonni saremmo costretti a metterci in ferie una settimana anche solo per preparare degli zucchini in carpione. Le cose vanno così anche in fotografia. Quando Archer scoprì il procedimento al collodio umido, si trattò di una bella scoperta rispetto a quanto si faceva prima. Tuttavia si trattava di un procedimento che oggi giudicheremmo esageratamente macchinoso: bisognava rivestire la lastra con il collodio, sensibilizzarla, esporla e poi svilupparla in pochissimo tempo, perché se il collodio si asciugava la sensibilità dell'emulsione andava a pallino. Il complicato procedimento rendeva indispensabile la presenza di una camera oscura: un'inezia quando si lavorava in studio, ma un vero problema quando si operava all'aperto: carri attrezzati, tende nere da montare e smontare in fretta e furia, zaini di incredibile mole e di ancor più incredibile peso trasportati sui campi di battaglia e lungo i sentieri dell'Himalaya.

Poi, verso la fine dell'Ottocento, fecero la loro comparsa le lastre asciutte ricoperte di gelatina. Il fotografo poteva evitare lunghe preparazioni acquistando il materiale sensibile presso un fornitore specializzato (di solito il farmacista) e soprattutto non era più costretto a portarsi appresso la camera oscura. Senza contare che le lastre asciutte erano molto più sensibili e permettevano, finalmente, tempi di esposizione brevissimi. Un meccanismo a orologeria, chiamato otturatore, prese il posto del cappello nero o del tappo, tolto e riposizionato a mano, tanto che nelle giornate di sole si poteva addirittura fare a meno del cavalletto. La nuova moda della fotografia a mano libera costrinse le industrie a realizzare apparecchi più piccoli e portatili, il primo dei quali fu La Patent Detective Camera di Schmidt (10x15x20 cm).

Poi, nel 1885, un fabbricante di lastre a secco di New York, un certo George Eastman, ebbe l'idea di stendere la gelatina su un rotolo di carta. L'idea era carina, perché permetteva di impressionare molti negativi su un solo supporto, ma mancavano le macchine per farla funzionare. Così tre anni dopo Eastman lancia sul mercato un apparecchio elementare, una scatola nera ermeticamente sigillata con un obiettivo da quattro soldi e un otturatore primitivo, caricata con il famoso rotolo. Ci stavano cento immagini, curiosamente circolari. Era il prototipo delle usa-e-getta, perché quando il rotolo finiva, bisognava spedire tutto l'apparecchio alla Kodak che restituiva le stampe su carta e una nuova macchina caricata con una pellicola vergine. Adesso ci voleva un nome, e Eastman ne andò a pescare chissà dove uno che avesse un forte impatto fonetico: Kodak. Si inventò anche uno slogan: "Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto". L'equivalente fotografico del cervo al civet surgelato in vaschette.

Milioni di persone presero confidenza con la fotografia, che divenne un'attività alla portata di tutti. Da lì in avanti è storia recente.

 

Che cosa si evince da tutto questo? Non lo so, non so neppure se queste elucubrazioni (campate là solo perché stasera ho un po' di tempo per far galoppare libero il cervello) abbiano un senso. Se proprio vogliamo trovarci delle conclusioni, possiamo provare a dire che

  • Le usa-e-getta non sono un'invenzione recente e pertanto è per lo meno anacronistico scandalizzarsene. Dovevamo farlo 120 anni fa, adesso è tardi.
  • Il fatto che tutti siano in grado di fotografare è un bene e non un male. E' vero: ci sono clienti che ti dicono "Così caro!? Guardi, lo faccio fare a mio figlio che qualcosa ci capisce", ma quelli sono imbecilli ed è meglio perderli che trovarli. Il fatto che la fotografia sia alla portata di tutti dovrebbe aiutare la gente a capire che cosa c'è dietro un'immagine ben fatta. E' un po' come succede per le biblioteche: chi frequenta le biblioteche non compra meno libri solo perché può leggerli gratis, anzi, i frequentatori abituali di biblioteche pubbliche sono i migliori clienti dei librai.
  • E' vero che siamo sempre meno abituati alla qualità di immagine, per cui ci accontentiamo di schifezze che qualche anno fa ci avrebbero fatto inorridire, ma sono sicuro che presto assisteremo a un'inversione di tendenza. Già avviene in campo alimentare. La gente incomincia ad averne abbastanza del civet surgelato, che va giusto bene quando si torna a casa dal lavoro e non si ha voglia di cucinare; ma sanno tutti benissimo che se vogliono mangiar bene devono andare in quel certo ristorante, dove c'è quel famoso cuoco che ancora usa un vecchio ricettario piemontese del Settecento: Si prenda un cervo...
Michele Vacchiano © 02/2002
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