UNA (DIS)AVVENTURA IN MONTAGNA
Michele Vacchiano, febbraio 2001

Se il buongiorno si vede dall'inizio...

La radiosveglia si accende all'improvviso gracchiando "Seitroppobella troppobella troppobella" tra fruscii e crepitii elettrici. In mezzo a queste montagne è difficile beccare un segnale pulito. Ho troppo sonno per apprezzare una canzone che già normalmente ritengo cretina e cerco a tentoni di spegnere la radio. Abbatto una bottiglia di acqua minerale, un orologio da polso e l'ultimo romanzo di Stephen King prima di poter zittire l'orrendo aggeggio. Tutto quel trambusto mi ha definitivamente svegliato. Claudia non ha mosso un muscolo: vorrei riuscire a dormire così, invece ho il sonno leggero dei lupi e basta che un topolino venga a frugare nella legnaia qui fuori perché io apra subito gli occhi, perfettamente sveglio e con tutti i sensi all'erta.
Guardo l'ora: sono le quattro e un quarto. La tentazione di continuare a dormire abbracciato a Claudia è quasi irresistibile. Con uno sforzo di volontà non indifferente scivolo fuori dal letto. Mi lavo in fretta. Lo zaino è già pronto da ieri sera, devo solo aggiungere la borraccia con l'acqua e qualcosa da mangiare: due o tre fette di pane di segale, una mela, un pezzo di formaggio. In montagna non mangio mai molto. Un rapido controllo per accertarmi di aver preso tutto ed esco di casa. Fuori è ancora buio ma le montagne dell'opposto versante già si stagliano grigie contro un cielo color porpora.

La stradina che da casa mia sale al parcheggio sembra interminabile e insopportabilmente faticosa a quest'ora del mattino. La rugiada della notte ha imperlato la mia Opel bianca di gelide goccioline, rendendola simile a una bottiglia di latte appena estratta dal frigo. Salgo e sistemo lo zaino sul sedile del passeggero, fermandolo con la cintura di sicurezza. Se mi sbrigo sarò di ritorno a metà pomeriggio.

La discesa in fondovalle, l'autostrada e la salita fino a Valnontey richiedono quasi un'ora e mezza di viaggio, anche per uno come me che non presta troppa attenzione ai limiti di velocità. Sono le sei e un quarto quando riesco finalmente a mettermi in cammino.

La prima parte del tragitto si snoda in fondovalle, lungo un sentiero quasi pianeggiante. In meno di mezz'ora raggiungo il piccolo villaggio di Valmianaz, ancora immerso nell'ombra e nelle brume del mattino. Sono cinque o sei case, alcune diroccate, altre abitate, che un tempo costituivano l'alpeggio di mezza stagione, il "mayèn" dove le mandrie trascorrevano la primavera in attesa di poter salire ai pascoli alti. Una solitaria croce di legno sostituisce la chiesa come segno dell'unità spirituale e culturale della comunità. Sullo sfondo, la Rocciaviva e la Becca di Gay ancora attendono che il sole accarezzi e risvegli i loro ghiacciai.

Abbandono il largo tracciato di fondovalle poco prima di raggiungere il ponte dell'Erfaulet e incomincio a salire lungo il ripido sentiero del versante destro. La mia meta è il bivacco Money, posto sulla morena dell'omonimo ghiacciaio, tre ore più in alto. Il bosco è ancora in ombra e questo facilita la salita: quando c'è il sole diventa tutto più faticoso.

In un'ora e mezza raggiungo i casolari del Money, un gruppo di baite abbandonate che un tempo servivano per l'alpeggio estivo. Qui il paesaggio è davvero incantevole: fra alti pascoli costellati di fiori e torrenti gorgoglianti brucano liberi camosci e stambecchi, mentre qualche marmotta lontana lancia il suo fischio acuto, allarmata dalla mia presenza. Verso sud la cerchia dei ghiacciai, dal Grand Crou alla Tribolazione. Su tutto domina il Gran Paradiso, pacifico gigante assiso sul suo trono di neve. Lo sguardo spazia su tutta la testata di valle: uno spettacolo grandioso e solenne. Dai loro possenti bacini ablatori i ghiacciai vomitano corsi d'acqua che scorrono a decine sul terreno morenico, per poi riunirsi a formare lo spumeggiante torrente di fondovalle. Il fragore delle cascate e delle acque che tuonano fra le rocce è un sottofondo continuo, incessante, che tra poco si unirà ai brontolii e ai tonfi sordi del ghiaccio risvegliato dal giorno che nasce. E allora giganteschi seracchi, torri di ghiaccio e pinnacoli trasparenti si staccheranno dalla massa principale precipitando per centinaia di metri nella fredda solitudine delle alte quote. Nessuno se non il vento sarà lì ad ammirare questi voli paurosi e solo il vento ne porterà l'eco per tutta la vallata. Il sole sta sorgendo dietro il gruppo degli Apostoli e già illumina di luce radente i ghiacciai mettendone in risalto la superficie tormentata. Le poderose colate di ghiaccio e le seraccate della Tribolazione appaiono in tutta la loro stupefacente e spaventosa bellezza. D'improvviso, l'elegante piramide dell'Herbetet si accende di rosso e di oro. La linea di luce scende lungo i suoi fianchi seguendo l'incedere del sole nel cielo.

Decido che un simile spettacolo merita qualche fotografia. Appoggio a terra il pesante zaino e incomincio ad estrarre l'attrezzatura. Monto sul cavalletto la Wista DX, avvito lo scatto flessibile, applico la piastra con il Sironar da 150 mm e incomincio ad effettuare l'inquadratura. Voglio riprendere i ghiacciai e le vette mantenendo in primo piano i resti di una vecchia baita diroccata.

Decentro leggermente verso l'alto e contemporaneamente basculo in avanti la piastra portaottica per avere a fuoco anche il primo piano. Un'energica diaframmatura rimedierà a qualche eventuale imprecisione dovuta alla mancanza di regolazioni micrometriche. Prima di chiudere l'otturatore e di applicare il filtro (fotografo in bianco e nero), do un'ultima occhiata al vetro smerigliato per accertarmi che tutti gli elementi dell'inquadratura siano al loro posto.

Quello che vedo non raggiunge subito il livello della consapevolezza: lo percepisco piuttosto come un disturbo vago e non definito, quale potrebbe essere un insetto che ronza accanto all'orecchio. Distolgo lo sguardo dal vetro smerigliato, ancora incredulo, e osservo direttamente. L'uomo è là, proprio nel bel mezzo della mia inquadratura. Con le mani sui fianchi passeggia beato e contempla il panorama. Lei lo raggiunge poco dopo. Vedo che parlano. Saranno a cento, forse centocinquanta metri da me. Lontani, certo, ma su un negativo di grande formato ingrandito a trenta per quaranta non mancheranno di risaltare, nitidi e incisi. Ma come diavolo fanno a trovarsi qui? Sono salito apposta la mattina presto per non trovarmi fra i piedi i soliti escursionisti; ho scelto apposta un giorno feriale per evitare situazioni del genere… E questi due pisquani, con tutto lo spazio che c'è, proprio lì devono andarsi a piazzare!

La donna decide che vuole prendere il sole e si toglie la camicia. Meno male, penso, almeno si distenderà fra le rocce e si nasconderà allo sguardo. Macché. Vuole scegliere con cura il posto in cui sistemarsi. Si guarda intorno, fa qualche passo avanti e indietro. Finalmente trova una pietra di suo gradimento. Sempre restando nel bel mezzo dell'inquadratura posa in terra il suo zainetto e lo apre. Bene, penso, adesso prenderà una coperta e finalmente si metterà giù. Invece no, rimane piegata in due, col deretano per aria, e comincia a tirar fuori dallo zaino un mare di roba, peggio che il gonnellino di Eta Beta. Quando finalmente capisce di aver fatto il vuoto totale si siede sulla roccia (ma sdràiati, maledizione!) e inizia a spalmarsi di crema solare. Ora io dico: non sono neppure le nove del mattino, la temperatura è fresca, quasi fredda, tu ti sarai già fatta almeno quindici giorni di mare perché sei nera come una capra… ma che caspita te ne fai della crema solare?!

Nello zaino porto sempre un fischietto. Può servire in casi di emergenza. Quando facevo la guardia ecologica volontaria lo usavo per richiamare quelli che abbandonavano i sentieri segnati, o gli imbecilli che inseguivano gli animali per fotografarli meglio. La tentazione di adoperarlo è forte. Dopotutto quei due sono fuori dal sentiero. Ma poi che cosa gli dico: toglietevi che devo fotografare?

Rimuginando pensieri poco edificanti nei confronti del mio prossimo smonto tutto, mi carico in spalla lo zaino e mi sposto più in basso. Dal mio nuovo punto di osservazione avrò un'inquadratura forse meno interessante ma comunque sempre spettacolare. Ancora la macchina sul cavalletto, lo scatto flessibile, l'obiettivo, il panno nero. Ho sempre la baita diroccata nell'angolo dell'inquadratura, bene. Forse però un moderato effetto tele non guasterebbe: la Tribolazione che incombe sul paesaggio, i suoi crepacci tormentati… Estraggo dalla tasca laterale dello zaino (un vecchio Invicta Ranger che ho modificato per trasportare l'attrezzatura e che uso a volte, in alternativa allo zainetto fotografico regalatomi da Claudia) il teleconverter Horseman e lo applico all'elemento posteriore del Rodenstock. Aaah, adesso sì che va bene! L'inquadratura è più selezionata, c'è soltanto quel rudere e la Torre di Ceresole che incombe al di sopra, con le cascate di ghiaccio e i seracchi e quel signore in maglietta e pantaloncini che sbuca da dietro la baita... Aaargh! E questo da dove arriva?!

Non è il tipo di prima, è un altro. Continuo a stupirmi di trovare tanta folla a quest'ora del mattino e in un giorno non festivo. Basta, qui bisogna fare qualcosa. Decido di affrontare la situazione di petto e mi avvicino. Buongiorno, buongiorno a lei, come va, eh non c'è male, bel posto, bella giornata, ma insomma che 'zzo ci fate qui. Sono una comitiva di Gallarate, saranno quindici o sedici. Loro sono l'avanguardia ma gli altri stanno arrivando, ancora arrancano su per il sentiero. Ma oggi? A quest'ora? Eh sì, stiamo al campeggio, l'ultimo lungo la strada, sa, quello… Sì, sì, lo conosco… Ecco, il fatto è che abbiamo finito le ferie e così ci facciamo quest'ultima gita perché nel pomeriggio si parte. Ma guarda, invece di restare chiusi nel camper a far valigie come le persone normali… Beh, pazienza. Il problema è che io sarei qui per fare un lavoro… Ah sì, interessante, ma pensa, le dà fastidio se guardiamo? (censura) No, no, si figuri, basta che non continuiate a passeggiarmi davanti…

Nel frattempo arrivano gli altri, fra cui l'immancabile orda di ragazzini vocianti. Gli ultimi stambecchi che ancora si erano attardati a brucare nei dintorni scompaiono come per incanto. E come per incanto mi ritrovo circondato da una decina di curiosi, tutti dotati di verace accento lumbàrd. Ma guarda, fotografa con una macchina vecchia… Ma no, 'gnurànt, non è vecchia, è che le fanno ancora così. Ma vè che roba, cos'è, una Zenza? Ma no, sarà una seipersei. Ma dài, perché poi fa questo? Eeeh, farà la reclàm. Scusi, lei cosa fa, la reclàm? E cos'è quella macchinetta più piccola? Non è una macchinetta piccola (ma perché rispondo?): è un esposimetro. Psst, non ho capito, cos'ha detto che l'è? Mah, sarà una telecamera tascabile, di quelle giapponesi. Ma va là, pistola!, serve a fare delle prove. Scusi, ma lei fa le prove?

Sbaglio un paio di passaggi: la prima volta scatto dimenticandomi di chiudere manualmente l'otturatore, la seconda estraggo lo chassis senza aver reinserito il volet. Due lastre buttate per stupida distrazione. E' che io non sono capace di fare come Robin Hood: lui centrava il bersaglio anche in mezzo alla confusione della mischia, io ho bisogno di calma…

Forse se mollo tutto e salgo al bivacco non mi seguiranno. Forse se incomincio a camminare sul filo della morena glaciale avranno paura e non mi seguiranno. Forse se mi seguissero sulla morena io potrei voltarmi di colpo e gridare "boo!" per farli precipitare dalla cresta. Adesso gli propongo di seguirmi come se fossi il pifferaio magico, poi quando sono tutti in fila sulla cresta li butto di sotto. Uhm, e se poi qualcuno si salva? Ma no, che cosa vado a pensare? E' molto più facile precederli a valle e dargli fuoco al camper, che oltretutto quei dannati aggeggi ti fanno morire, quando hai la sventura di averne uno davanti su per una strada di montagna.

Conto fino a trenta come mi aveva insegnato mio nonno, che lo faceva per non strozzare la nonna quando litigavano, che poi tanto sono vissuti insieme fino a novant'anni e quando è morto uno è morto anche l'altro subito dopo. Non basta. Forse il nonno era più bravo, ma io devo contare fino a cinquanta. Spiego, con voce innaturalmente calma, che insomma è stato un piacere ma devo proprio andare. Smonto tutto di corsa, tento di chiudere la folding dimenticandomi di togliere il duplicatore (e rischiando così di mandare in frantumi il vetro smerigliato), mi carico lo zaino in spalla e parto. Ho bisogno di salire verso l'alto, oltre che di andarmi a confessare per tutto quello che ho pensato nell'ultima mezz'ora, ma questa è una faccenda che risolverò più tardi…

"Scusi…" Mi fermo e mi giro. I pugnali che escono dai miei occhi devono aver perso il filo, perché invece di cadere a terra stecchito il quarantenne calvo e grassoccio che mi ha chiamato mi porge sorridente una compatta, di quelle che regalano al supermercato se fai cinquantamila lire di spesa. "Visto che se ne intende, ce la farebbe una foto a noialtri?".

Michele Vacchiano © 02/2001
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