PERCHE' CONTINUIAMO A PARLARE DI QUALITA' DI IMMAGINE?
Michele Vacchiano, luglio 2001

Solo amare considerazioni? Uno sfogo momentaneo? Oppure...
State a sentire che cosa ci racconta Michele Vacchiano. Vale la pena leggere fino in fondo.

In una diapositiva di 10x12 centimetri possono essere contenuti 3,3 fotogrammi 6x6 e quasi 14 fotogrammi di piccolo formato. Questo paesaggio fotografato su pellicola Fuji Provia 100F potrebbe, volendo, essere "ritagliato" in 14 vedute di dettaglio ognuna delle quali potrebbe costituire una fotografia a sé stante, dotata della nitidezza propria di una normale diapositiva 24x36 scattata su pellicola da 100 ISO.

Stavamo seduti all'ultimo tavolino in fondo, quello un po' più lontano dagli altoparlanti, in uno dei tanti Irish pub che a Torino spuntano come funghi. Eravamo in due, Sergio Rebaudengo ed io. Lui fa il fotografo nelle Langhe, ha un negozietto dove vende pellicole e cartoline ai pochi turisti di passaggio e la domenica va in giro a fotografare i matrimoni. Ogni tanto fa il ritratto a qualche facoltoso produttore vinicolo o a qualche famiglia della Torino-bene trasferitasi laggiù per giocare ai contadini, e allora tira fuori la Plaubel Peco Profia con il vecchio Symmar 240, quello montato sul Compur 3, e si diverte a fare le cose come si deve. A volte i clienti gli chiedono perché debba adoperare una macchina "vecchia", sospettano di quello strano apparecchio a soffietto che non ha lucine lampeggianti e non fa bip-bip, temono che le foto non vengano bene. Una volta Sergio spiegava, parlava, si entusiasmava a descrivere i vantaggi del grande formato. Adesso non più. E' invecchiato e stanco, stanco dentro, fa il suo lavoro e sta zitto, che gli altri pensino quello che vogliono.

La Kilkenny andava giù come l'acqua, accompagnata dalle focaccine allo speck del signor Nicola, che è pugliese di Molfetta ma ha capito subito che noi piemontesi diventiamo matti per tutte queste cavolate celtiche e allora ha avuto la bella idea di aprire un pub irlandese. Uno dei tanti, è vero, ma questo è sempre stracolmo. Sarà perché è in un bel quartiere. Devo solo suggerirgli di sostituire questo rock assordante con le canzoni di Loreena McKennit, farebbe più atmosfera.

"Che senso ha?" si chiedeva il Rebaudengo scuotendo la testa. "Gli faccio un ritratto con tutti i crismi, quattro luci, un bel fondale nuovo che ho preso alla SMAF e che mi è costato una settimana di lavoro, e quando gli chiedo centomila lire mi domandano se sono matto. Ma io mi ci tolgo appena le spese, con la pellicola, le luci, la stampa a mano trenta per quaranta. Il fatto è che mica la vedono, la differenza: io gli faccio una foto che si possono contare i peli della barba, ma stai sicuro che se usassi una compatta sarebbero contenti lo stesso."

"E tu accontentali, no? Se vogliono spendere poco fagli il ritratto con la compatta. Lo stampi su carta politenata da quattro soldi, glielo fai pagare ottantamila lire, loro son felici perché ne risparmiano ventimila e tu fatichi di meno."

Il Rebaudengo manda giù un sorso di birra, poi si asciuga i baffi ormai grigi col dorso della mano. Un gesto lento e meditato, come per prendere tempo a riflettere su quello che gli ho appena detto. Mi guarda fisso negli occhi e scuote la testa: "A l'è nen parèj ch'as fa" pronuncia con tono grave. Non è così che funziona. Eh no, perché la nostra maledetta mentalità sabauda ci costringe a fare sempre e comunque le cose per bene. Fossimo anche certi di rimetterci, siamo geneticamente programmati per dare il meglio, e che sia non solo ben fatto ma anche ben confezionato, con i fiocchi e le frange. Se non ci credete andate in una pasticceria torinese (ma di quelle vecchie che conosciamo noi, non quelle per i turisti), spendete anche solo tremila lire in cioccolatini e state a vedere come ve li confezionano, che a momenti gli costa di più la carta e il nastro. Siamo fatti così, e la gente come Sergio Rebaudengo continuerà a lavorare per altra gente fondamentalmente ignorante, che non apprezza le cose fatte bene ma soltanto quelle fatte in fretta.

Penso che la colpa sia anche nostra. Di noi fotografi intendo. Il gusto del pubblico andrebbe educato e invece noi abbiamo paura di perdere il cliente se gli chiediamo il giusto per un lavoro ben fatto, e allora eccoci lì a dover tenere bassi i prezzi, anche perché in giro non circolano più i soldi che c'erano una volta, oggi con lo stipendio ci fai poco, e alla fine la qualità ne soffre.

Del resto alla qualità non siamo più abituati. Avevamo cominciato con le videocamere amatoriali, che stavano all'immagine chimica come il triciclo sta alla Maserati biturbo, ma chissenefrega, vuoi mettere la comodità. Poi è venuto il Kodak Photo-CD, che ti permetteva di vedere le foto sul televisore di casa. Uno schifo mai visto, ma il vantaggio di non dover montare cavalletto, schermo e proiettore dia era impagabile. E poi, per le foto fatte al mare con il sole a picco e tutte le ombre sotto gli occhi il televisore domestico era fin troppo definito e nitido. Adesso ci sono le compatte digitali, il televisore è stato sostituito dal monitor del PC, ma i risultati non sono troppo diversi.

Perché la gente ha sempre meno voglia di imparare? Fino a qualche anno fa i libretti di istruzioni somigliavano a trattati di tecnica fotografica. Oggi sembrano scomparsi: leggere stanca, non è abbastanza friendly. Per essere friendly non deve esistere interfaccia fra l'oggetto e il suo utilizzatore: l'uso dev'essere immediato e intuitivo. Ergo, la macchina deve essere completamente automatica. Per le foto sulla spiaggia va benissimo. Un po' meno per le altre.

Perché la gente ha sempre più fretta? Capisco il professionista, che magari deve spedire le foto alla rivista entro ventiquattr'ore, ma all'impiegato del comune che gli frega di avere sviluppo e stampa in ventitré minuti? Ha messo la pellicola in macchina lo scorso Natale, l'ha finita a Riccione durante le vacanze e adesso com'è che gli brucia di vedere come sono venute? Fatto sta che in tutti i supermercati c'è ormai questa macchina che mentre fai la spesa ti trasforma il rullino in trentasei foto stampate, tutte giuste, tanto le corregge il computer anche se sono sottoesposte di quattro diaframmi, trecento lire l'una e ti danno pure l'album. E' vero, dopo tre settimane i colori non sono più quelli, ma qualcosa si deve pur pagare, no? E poi, a dire il vero, oggi questo succede assai meno di un tempo: la tecnologia si evolve.

Insomma, non è per fare il laudator temporis acti, ma ho l'impressione che negli anni Ottanta i fotoamatori fossero più attenti, più consapevoli, più curiosi, più disposti a credere che per ottenere dei risultati fosse necessario darsi da fare, essere disposti ad imparare dai propri errori e meno timorosi di buttare via qualche scatto. Fotoamatori veri, che partecipavano ai workshop e pagavano volentieri la quota di iscrizione perché pensavano che c'è sempre la possibilità di crescere e di migliorare. Una specie in via di estinzione come i fumatori di pipa.

Non si tratta di un fenomeno solo italiano: da questo punto di vista in Francia stanno peggio. "Béla consolassion", direbbe il Rebaudengo, ma sta di fatto che è così. Non so bene come vadano le cose nella Mitteleuropa, ma a sentire Burkhardt Kiegeland, che in una grande casa sperduta fra Austria e Baviera produce folding in legno con l'accuratezza di un artigiano orafo, lassù esiste una maggiore attenzione per l'immagine. Certo, anche loro adoperano la compatta o la macchinetta digitale, ma sanno quando farlo: in vacanza o fra amici va tutto bene, ma quando si ha bisogno di una foto ben fatta allora si adoperano gli strumenti adeguati. Oppure si va dal professionista, certi di ottenere un prodotto di qualità. Pagandolo il giusto.

E l'America, modello e leader di ogni stile di vita? Beh, mi secca ammetterlo ma questa volta dovremmo davvero imparare da loro. Il fotoamatore americano ha Ansel Adams come ideale da raggiungere e sa che per farlo le strade non sono molte. E soprattutto non ci sono scorciatoie. Per cui il grande formato è diffuso e conosciuto quasi quanto da noi la reflex. Le press-camera tipo Graflex sono state usate dai reporter fino all'altro ieri e si trovano come il pane sul mercato dell'usato. Corrispondo quasi quotidianamente con fotografi che per nulla al mondo rinuncerebbero alla loro Wisner Expedition, con tutto il suo corollario di pesi, ingombri e lentezza operativa. Le "Stock agencies", dal canto loro, sono molto esigenti in fatto di qualità di immagine, cosa che automaticamente incoraggia la crescita professionale e la ricerca, da parte del fotografo, di un costante miglioramento tecnico ed estetico.

A fronte di tutte queste considerazioni, sulle quali è inutile piangere ma di cui siamo obbligati a prendere atto, ha ancora senso lavorare in grande formato? Quando il cliente si accontenta di un prodotto mediocre (che peraltro non è in grado di riconoscere come tale) purché economico, è utile cercare di convincerlo? Non tutti hanno voglia di lasciarsi educare, soprattutto quando questo si traduce in una perdita di tempo e in un maggiore esborso di denaro; senza contare il rischio di venire accusati di voler imbonire il cliente, stordendolo di parole al solo scopo di spillargli quattrini. A volte ci si può permettere il lusso di fare i puri, del tipo il mio standard di qualità è questo e non scendo al disotto, se vuoi spendere meno vai da un altro. Io per esempio mi sono rotto le scatole di dover contrattare tutte le volte che mi chiamano per parlare di fotografia. Per una serata in trasferta con conferenza (che certo non si improvvisa) e proiezione di diapositive (che va preparata) non mi sembra di esagerare se chiedo trecentomila lire, eppure appena dico la cifra quello che sta all'altro capo del filo si mette a piangere miseria. Allora io perdo la pazienza e rispondo che non siamo a Porta Palazzo: i miei prezzi sono questi, non intendo metterli in discussione e piuttosto che svendere il mio lavoro la conferenza la faccio gratis. Poi ovviamente mi pento perché quello accetta subito con entusiasmo e io mi ritrovo a spendere tempo e benzina per niente. Si tratta comunque di eventi rari: la maggior parte delle volte la realtà è molto più prosaica e se si vuole ottenere l'incarico bisogna saper accettare il compromesso.

Anche il cliente esperto (o che dovrebbe essere tale) richiede attenzione. Editori, riviste ed agenzie lavorano normalmente con il piccolo formato. E' vero che vanno in brodo di giuggiole non appena vedono una diapositiva 6x7; è vero che quando gli mandi cento lastre 10x12 le trattengono tutte e te ne chiedono ancora, ma la domanda è: il gioco vale la candela? Quando ho impressionato centinaia di pellicole piane e ne vendo cinquanta, che cosa ci ho guadagnato? Quando la rivista mi commissiona un articolo, perché spedire le diapositive 6x9 quando loro si accontenterebbero del 24x36? E' vero, si tratta essenzialmente di una soddisfazione personale, di orgoglio professionale, insomma di tutta una serie di nobili sentimenti. Ma alla fine del mese bisogna confrontarsi con le entrate e le uscite e di fronte al rendiconto delle spese sostenute viene spontaneo farsi delle domande, la più benevola delle quali è "ma sono proprio l'ultimo dei pirla?"

Certo, il grande formato ha una sua nicchia (sempre più ristretta) di applicazioni. Inoltre (vantaggio del tutto unico) consente di modificare prospettiva e nitidezza grazie ai movimenti dei corpi. Ma ormai anche le verticali convergenti si correggono con Photoshop e per quel che riguarda la nitidezza è decisamente più vantaggioso piazzare sul cavalletto la Canon e chiudere tutto il diaframma piuttosto che perdere dieci minuti alla ricerca del basculaggio perfetto, quello che ti permette di applicare al meglio la regola di Scheimpflug. Proprio oggi un professionista è venuto in biblioteca per fotografare alcuni manoscritti. Ha montato un apparato di illuminazione invidiabile, due box Lupo Superlight con dimmer locale. Ma sul cavalletto c'era una Olympus OM-2000 con obiettivo zoom. Gli ho chiesto per che cosa servissero le foto e mi ha risposto che gli erano state commissionate dagli organizzatori di una mostra. "Per fare stampe destinate a una mostra io adopero di solito il 10x12" ho timidamente azzardato. "E perché dovrei?" mi ha risposto lui: "Tanto questi non capiscono un emerito c****: qualunque cosa gli do va bene."

E allora?

E allora non lo so, non credo che esista la risposta giusta, o almeno io non la trovo. Per quanto mi riguarda fotografo in grande formato essenzialmente per passione; perché sono in pochi a farlo (e soprattutto sono in pochi a farlo in alta montagna); perché, da buon piemontese, mi piace fare le cose per bene. Nonostante tutto, mi ritrovo a lavorare sempre più spesso su pellicola piana.

Chi non l'ha mai provato non può capire, ma scoprire l'inquadratura perfetta e consumarla in un sessantesimo di secondo non ha senso. Insomma, non c'è sugo. Invece montare il cavalletto, sfilarsi di dosso lo zaino, estrarne la folding e il panno nero e cominciare a lavorare con tranquilla determinazione, verificando gli effetti dei movimenti sulla forma e sulle proporzioni del paesaggio, sono gesti la cui sequenzialità e la cui obbligata lentezza danno al fotografo il tempo di entrare in contatto con il soggetto, di interiorizzarlo e di farlo suo filtrandolo attraverso i dati dell'esperienza, per creare alla fine un'immagine capace di rappresentare non tanto la realtà fenomenica quanto piuttosto una visione del mondo.

Dopo tutto è un po' come fumare la pipa, che richiede di essere caricata con precisione, accesa con attenzione, accudita durante la combustione del tabacco e alla fine svuotata e pulita con cura meticolosa. Gesti quasi rituali, che come un esercizio di meditazione predispongono al godimento di un fumo fatto per essere assaporato con calma piuttosto che inalato con frenesia.

E pazienza se mi porto appresso sei chili di roba per fare una o due foto. Quello che lo spettatore vedrà non saranno ghiacciai e montagne, ma i miei più nascosti e segreti paesaggi dell'anima.

E alla fine del discorso si è costretti ad ammettere che chi ha ragione è proprio il Rebaudengo, che adopera la Plaubel anche se i suoi clienti storcono il naso, anche quando rischia di rimetterci. Però si diverte come un matto. Quello sì che ha capito. Ce ne fossero tanti come lui!

Michele Vacchiano © 7/2001
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