IL FOTOAMATORE E LA PIETRA FILOSOFALE
Romano Sansone, giugno 2003

Ovvero, riflessioni di un pomeriggio di piena estate.

Partecipare ad una mailing list di fotografia è come fare un salto indietro nel tempo, e ritrovarsi tra maghi e alchimisti in cerca del modo di trasformare in oro un rivelatore o un obiettivo.

Ciò di cui non si tiene conto è che tutte le indicazioni non possono essere che approssimative, e che, salvo casi estremi nei quali le differenze tra un rivelatore e l'altro o un obiettivo e l'altro siano davvero significative, l'effetto degli uni e degli altri dipende in gran parte dalle condizioni di uso.

Prendiamo il caso del vetusto D-23 o del suo più giovane parente, il POTA. I due hanno in comune il fatto di non contenere idrochinone (il primo è basato sul metolo, il secondo sul fenidone), che ne fanno dei rivelatori "compensatori" nel senso che sviluppano a fondo le ombre evitando al tempo stesso che le luci vadano fuori scala.

Questo effetto compensatore può però essere raggiunto lavorando con rivelatori metolo-idrochinone diluiti, riducendo il tempo di sviluppo, aumentando l'esposizione per non perdere dettaglio nelle ombre, ed allungando gli intervalli tra una agitazione e l'altra. Non garantisco che le stampe abbiano esattamente lo stesso aspetto, ma il doppio scopo di aprire le ombre senza bruciare le luci è raggiunto in entrambi i casi.

Nonostante il fatto che il D-23, ormai fuori commercio, sia facilissimo da prepararsi in casa, che il POTA sia disponibile come rivelatore per la Technical Pan, e che le variabili del ciclo di sviluppo siano più che semplici da mettere in opera, il discorso gira quasi sempre intorno ai rivelatori metolo-idrochinone, dalla formula vecchia come il cucco e dalle caratteristiche poco significative in termini generali perché molto dipende dall'uso che se ne fa e dal come si valutano.

Le due foto sottostanti sono state scattate in epoche diverse con la stessa pellicola e sviluppate allo stesso identico modo.

Nadir Magazine ©

Qualsiasi affermazione sulla grana basata sulla seconda, in low key, non avrebbe alcun significato, perché a quelle densità la grana non si vede. Al contrario, se c'è grana, la prima, in high key, la mette in vista tutta, ed è un test molto severo.

Altro esempio: il ciclo di sviluppo che ho adottato per i miei negativi dovrebbe portare ad una perdita di acutanza, perché una lunga permanenza in presenza di solfito di sodio, che in ogni formula metolo-idrochinone esercita la funzione di antiosssidante, porta in soluzione i bordi dei grani di argento che così diventano più "sfumati". In realtà questa affermazione generica non tiene conto del fatto che nel caso specifico l'HP5 ha di suo una acutanza chiaramente superiore all'FP4, pellicola peraltro ottima sotto tutti gli aspetti, e quindi può incassare allegramente una possibile perdita di acutanza dovuta al ciclo di sviluppo. Aggiungo che la scelta dell'HP5, con una serie di test rigorosamente paralleli, fu molto sofferta perché sacrificando l'FP4 in favore dell'acutanza perdevo notevolmente in plasticità.

Terzo esempio, preso pari pari da "IL NEGATIVO" di Adams. Il bromuro di potassio si aggiunge alla formula del rivelatore perché ne inibisce l'azione sulle aree non esposte del negativo, prevenendo così la formazione di un velo. Ma poiché "natura non facit saltus", non è che limiti la sua azione alle zone per nulla esposte, ma fa sentire la sua presenza anche in quelle poco esposte, impedendo lo sviluppo a fondo delle ombre. Ora, il bromuro di potassio presente nella tank non è solo quello aggiunto nella formula, ma anche quello che si forma dalla reazione del rivelatore con il bromuro di argento nella emulsione, e se ne sta lì bello tranquillo alla superficie della pellicola inibendo l'ulteriore azione del rivelatore. Occorre agitare per rimuoverlo, altrimenti le ombre non si sviluppano. Ma non avevamo detto che allungando gli intervalli tra agitazioni si contribuisce a sviluppare meglio le ombre?

Sembra abbastanza evidente che in un sistema multivariabile tutto è una questione di compromesso, che se si tira un oggetto di gomma in una direzione si restringe in un'altra, e che affermazioni tout court su ciò che è equivalente o diverso lasciano il tempo che trovano.

Allora che cosa è meglio? Ci sono due alternative.

1- Fidarsi di una coppia pellicola-rivelatore ed ottimizzarla con tempo e pazienza affinché dia dei risultati soddisfacenti con una grande maggioranza degli scatti.

2- Sperimentare, senza però illudersi che tentativi selvaggi possano dare risultati affidabili. La pianificazione degli esperimenti è un'arte che va appresa ed applicata con costanza ed autodisciplina, e rimanendo coscienti del fatto che il numero degli esperimenti e dei risultati da paragonare e valutare in termini oggettivi e soggettivi aumenta paurosamente con l'aumentare delle variabili in gioco.

Lo stesso discorso vale per gli obiettivi. Se non paragoniamo vetri di eccelsa fama con fondi di bottiglia, molte discussioni hanno il solo pregio di far prendere aria alla lingua. Posseggo 4 Planar, il 75mm f/3.5 della Rollei biottica che risale agli anni '50, l'80mm f/2.8 della Hasselblad della fine degli anni '80, il 50mm f/1.4 e l'85mm f/1.4 della Contax, edizione terzo millennio. Mi divertirei moltissimo a stendere su un tavolo foto fatte con i quattro ed a pagare una cena a quelli che indovinano con quale obiettivo sono state scattate. Va da sé che gli altri dovrebbero portarsi il panino da casa.

Romano Sansone © 06/2003
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