QUEL GIORNO
Michele Vacchiano, settembre 2003

L'episodio che sto per raccontare accadde diversi anni fa. Era l'inizio dell'autunno, come se fosse adesso; l'aria era tiepida e dolce e sembrava che l'estate non volesse andar via senza lasciare un caldo ricordo di sé.

Ero solo in casa: mio figlio Giorgio (l'unica persona con cui vivessi all'epoca) era fuori Torino per non so quale impegno ed io mi stavo preparando alla cena, una confezione di gnocchi alla sorrentina rigorosamente surgelati, una bottiglia di Freisa d'Asti, l'immancabile telegiornale delle 20,30.

Come sempre quando sto per cenare, squilla il telefono.

"Scusi, lei fotograferebbe il giardino di mia moglie?"

Rimango un attimo in silenzio. Detta così mi sembra una proposta indecente. Forse uno scherzo. Mi riprendo quasi subito: "Ehm... sì... ma lei che cosa vuole esattamente?"

"Le spiego: abbiamo una villa qui in collina e mia moglie cura il giardino come se fosse un figlio. Ecco, io vorrei un bel servizio fotografico così lei potrà mostrarlo alle amiche. Ci tiene tanto!"

"Va bene, ma ho bisogno di sapere qualcosa di più. Ad esempio, voi preferite diapositive da proiettare, immagini da archiviare sul PC e spedire per posta elettronica, stampe a colori da mettere in un album?"

"No, no, noi vogliamo delle foto grandi grandi da mettere in una cartella e portare in giro quando siamo invitati a cena o a qualche festa. Oppure mia moglie può mostrarle alle amiche al pomeriggio, quando si trovano per il bridge. Sa, io sono in tribunale tutto il giorno e poi ho lo studio per i clienti privati, ma mia moglie ha molto tempo libero, è sempre sola in quella grande casa…"

"Okay, va bene, ci penso io. Quando vorrebbe che fosse fatto il lavoro?"

"Mah... subito, direi." "Subito? Ma in questa stagione è ormai tutto sfiorito, e con il caldo che ha fatto..."

"Ah, già, mi scusi, non glielo avevo detto: il nostro è un giardino barocco: labirinti di siepi, bordure, piante esotiche, statue, cascate d'acqua... niente fiori."

Chissà che orrore, penso tra me, ma do appuntamento al mio cliente per il sabato successivo.

"Io sarò via, ma ci sarà mia moglie."

Per me va bene, basta che alla fine qualcuno firmi l'assegno.

Decido di lavorare in grande formato. Non solo perché mi sono state chieste stampe "grandi grandi", ma anche per poter giocare a mio estro con le prospettive e le inquadrature, grazie all'uso dei corpi mobili. Adoperando pellicola in rullo anziché lastre piane resterò agevolmente all'interno del budget.

Alle nove del mattino sono all'indirizzo che mi è stato indicato. Un largo cancello in ferro battuto, con fiori e volute, si apre cigolando davanti al muso dell'Astra senza darmi il tempo di scendere e suonare il campanello. Percorro un viale inaspettatamente lungo (ne ha di soldi, l'avvocato!) e già inizio a farmi un'idea del "giardino". Innanzitutto il luogo è di una vastità impressionante, un vero parco. Ma quello che più mi colpisce è lo stile. Definirlo giardino barocco è fargli un complimento: a conferma dei miei più inconfessati timori vedo intorno a me le manifestazioni più bieche di un kitsch d'altri tempi, il tutto condito da un'atmosfera ombrosa e crepuscolare degna dei peggiori film dell'orrore. L'aggettivo "cimiteriale" prende immediatamente forma nel mio cervello. "Qui abita la famiglia Addams!" penso fra me.

Nel frattempo raggiungo lo spiazzo antistante la casa. In pieno contrasto con le ombre funeree che si aggirano nel parco, la villa è moderna e solare, ampia di vetrate e luminosa di legni e intonaci chiari. Sulla facciata candida spicca il verde acceso di un roseto rampicante. Immagino come dev'essere all'epoca della fioritura. Scendo dall'auto e mi avvicino all'ampia scalinata che circonda l'intera costruzione, diretto all'ingresso. Nessuno mi si fa incontro, forse la porta si aprirà da sola, come aveva fatto il cancello. Magari con un cigolio sinistro. Adesso zio Fester sbuca da dietro un cespuglio e mi stacca la testa a mani nude.

Invece che zio Fester compare un cane gigantesco, credo un pastore del Caucaso, che mi si avvicina abbaiando senza troppa convinzione. Non ho paura dei cani e so come comportarmi anche quando manifestano intenzioni aggressive. Questo poi sembra soltanto seccato che qualcuno abbia interrotto il suo pisolino.

"Ciao bello!" esclamo, accovacciandomi con le mani aperte. Come previsto si avvicina, mi annusa, lascia un po' di bava sulle mie scarpe e poi tutto gongolante si lascia accarezzare dietro le orecchie e alla base della coda.

"Vedo che avete già fatto amicizia…"

Morticia Addams… pardon, la padrona di casa si materializza alle mie spalle. Anche lei è in contrasto con il giardino. E che contrasto! Dai trenta ai trentacinque anni, capelli biondi raccolti sulla nuca a scoprire un lungo collo elegante, occhi azzurri come il ghiaccio, portamento aristocratico ma non altezzoso, sorriso luminoso anche se velato da un'impalpabile accenno di malinconia. E' vestita in modo informale, T-shirt e pantaloncini corti, ai piedi un paio di sandaletti in cuoio. Un sobrio ma prezioso braccialetto di perle (selvagge, non coltivate) è l'unico segno del suo status sociale: un messaggio discreto per i pochi che lo sanno cogliere. Mi alzo, provocando uggiolii di protesta da parte del cagnone che vorrebbe ancora carezze, e le tendo la mano.

"Prima di incominciare a lavorare, le andrebbe un caffè?"

"La ringrazio, non bevo caffè. Tuttavia vorrei che ci parlassimo un momento per impostare il lavoro nel migliore dei modi."

Mi fa accomodare su un divanetto in vimini sotto il patio che circonda la casa e si siede accanto a me.

"Ha già visto il parco?" mi domanda sorseggiando il caffè che una domestica comparsa dal nulla le ha portato.

"Sì" rispondo, "e le confesso che tutte quelle statue, quelle grotte, i labirinti e le siepi di bosso mi sembrano… come dire…"

"Funerei?"

"Beh… forse il termine è un po' forte ma…"

"Non si preoccupi, lo so benissimo. Ma è il mio modo di portar fuori la parte buia di me. Esternamente io sono come questa casa, luminosa e solare; ma nessuno coglie il mio tormento interiore, la mia tristezza a volte insopportabile, la mia solitudine. E' a questi sentimenti che ho dato corpo progettando il giardino."

Sono un po' imbarazzato da questo livello di confidenza, ma capisco che la signora mi sta dando informazioni importanti, in grado da orientare e ispirare il mio lavoro.

Improvvisamente mi viene un'idea: "Suo marito mi ha chiesto di fotografare il giardino, ma forse lei desidera comparire in qualcuna delle immagini…"

"Uhm… non ci avevo pensato, ma… perché no? Non ho mai fatto la modella, forse questo spezzerà la monotonia... Mi aspetta due minuti?"

Non era così che volevo che andasse. Avrei preferito fare il mio lavoro da solo e poi, verso la fine, scattare qualche foto con la signora. Comunque il sasso l'ho gettato io e non mi resta che fare buon viso a cattivo gioco. Come deve andare, andrà.

Per ingannare l'attesa scarico dal portabagagli la borsa con l'attrezzatura e il cavalletto. Dopo dieci minuti di attesa incomincio a giocare col cane, che è rimasto tutto il tempo accucciato ai miei piedi nella speranza di nuove coccole. Dopo mezz'ora il cane se ne va, anche alle carezze c'è un limite. Me ne andrei anch'io, anche all'attesa c'è un limite.

Dopo quaranta minuti "madame" compare in cima alla scalinata (ma da dove arriva? Qui è come se tutti si materializzassero all'improvviso). Indossa un lungo abito in seta color panna, con le maniche corte e uno spacco mozzafiato.

"Sono andata a farmi bella. Mi perdona l'attesa?"

Se fossi il Michele di sempre risponderei con una frase galante e un complimento, ma non sono dell'umore giusto e mi limito a un borghesissimo "non si preoccupi" che può voler dire tutto e niente.

Mi fa da guida nel giardino e devo ammettere che questo mi aiuta: almeno so esattamente quali sono i luoghi e le inquadrature per lei importanti. Contrariamente a quanto pensavo, l'atmosfera un po' lugubre scatena la mia fantasia. Cerco e trovo inquadrature insolite, strapazzo Scheimpflug al limite delle sue possibilità, uso focali estreme e tagli di luce inusuali. Durante i lunghi minuti necessari ad ogni singolo scatto la signora attende, non mostra impazienza, rimane in silenzio, consapevole del grado di concentrazione che mi è necessario. Una sola volta le propongo di dare un'occhiata al vetro smerigliato, ma rifiuta cortesemente: "No, grazie, mi fido di lei."

Il tempo scorre via veloce. Mi sembra di avere appena iniziato a lavorare eppure è già pomeriggio. La luce del sole si fa più calda e radente, l'ideale per esaltare la leggera abbronzatura della mia ospite. Le chiedo se vuole far parte dell'inquadratura. Accetta come se non stesse aspettando altro.

"Bene, provi a sedersi là… e laggiù…" Ma mi accorgo presto che non c'è bisogno di impartire istruzioni. Lei si comporta e si muove come una modella. E che modella! Di quelle a cui non devi dir nulla, che non si spazientiscono e mantengono un'espressione naturale anche quando ci metti dieci minuti a definire l'inquadratura, di quelle che istintivamente sentono lo spirito dei luoghi, il taglio della composizione, il respiro dello sfondo e si mettono al posto giusto e nella posizione giusta ogni volta.

Presto il feeling diventa totale. Lei si diverte a cambiare espressione: imbronciata, provocante, triste, solare... come se fosse in grado di mutare personalità e carattere alla velocità di un batter di ciglia.

"Posso togliermi le scarpe?"

"Certo, ma perché vuole farlo?"

"Perché l'abito con lo spacco e le scarpe con i tacchi non mi piacciono, fanno un po' puttana. Preferisco i piedi nudi."

Mi stupisco del termine che ha usato. D'improvviso il suo aristocratico distacco si è sciolto per lasciare posto a una sorta di complicità maliziosa. Sembra una studentessa che ha marinato la scuola.

Per quanto mi riguarda trovo molto più erotici i piedi nudi che non le scarpe coi tacchi: una donna scalza ha un che di innocente e selvatico che trovo irresistibile. Mi sembra corretto dirglielo. "Meglio così!" risponde divertita.

No, non provo nulla per lei, il feeling è solo professionale: lavoriamo bene insieme, ecco tutto, così come ho lavorato con altre ragazze simpatiche e sexy senza che questo mi coinvolgesse emotivamente.

In realtà sto sottovalutando la situazione. E questo è il mio primo errore.

La signora sembra entrare sempre più nella parte, si diverte, provoca, dopotutto ha iniziativa. Scioglie i capelli, sposta una manica del vestito per scoprire la spalla, si accovaccia a terra, a capo chino, il volto nascosto dai lunghi capelli biondi, una mano appoggiata al suolo. Lo spacco cade al posto giusto, ma quello che più mi attira di lei sono i piedi nudi ormai sporchi di terriccio e foglie. Sembra una creatura selvatica dei boschi, una ninfa triste, un'antica dea abbandonata e sola. Lei e il suo parco si identificano sempre più, sempre più strettamente entrano a far parte l'uno dell'altra. La sua vera personalità, quella che l'ha spinta a creare quel luogo malinconico ma anche onirico, sta prepotentemente prendendo il sopravvento. Si muove con grazia e lentezza, con una flessuosità mesta che ricorda lo stormir di fronde di un salice piangente.

E' a questo punto che commetto il secondo, madornale errore. Una volta un'amica mi disse: "Smettila di fare il galante e lo sfacciato con tutte. Tu lo fai perché sei così, un po' signore e un po' mascalzone, ma sei anche ingenuo e non pensi che certe donne viaggiano."

Già, anche questa volta non ci penso, mi sembra naturale comportarmi come con una qualunque modella professionista. Quando la posizione è giusta e la luce è perfetta la incoraggio, mi complimento con lei, brava! così! bellissima! sei perfetta adesso! Lo facciamo tutti no? Tutti i fotografi con tutte le modelle, voglio dire, e non c'è nulla di personale. Quasi mai, almeno. Ma qui è diverso, e senza rendermene conto sto innescando qualcosa che potrebbe sfuggire al mio controllo.

Nel nostro peregrinare all'interno del giardino raggiungiamo un labirinto di siepi, al centro del quale troneggia un'orribile riproduzione del Perseo del Cellini. Senza che io abbia il tempo di capire che cosa vuol fare, la mia ospite si avvicina alla statua e la abbraccia, accarezzandone i muscoli marmorei.

"Che ne dici di questa?" mi chiede.

"Mah, non so se…"

"O forse la preferisci così?" E con un unico gesto elegante fa scivolare il vestito fino ai piedi, mostrandosi completamente nuda e avvinghiata al Perseo come a un amante.

Recupero in cinque secondi il mio sangue freddo.

"Sei sicura di volerlo fare?" le chiedo.

"Perché, a te non piace?"

"Sinceramente no, la trovo di cattivo gusto, ma sei tu che paghi." Replico con tono volutamente distaccato.

"Eddài, mi sto divertendo!"

Forse sono stato troppo brusco. Dopotutto se va bene a lei, che male c'è? Le suggerisco che per foto del genere il grande formato potrebbe essere d'impiccio, togliere spontaneità. Inoltre in quel genere di fotografia decentramenti e basculaggi non servono di certo. Le propongo di usare la reflex. Per lei va bene, non coglie la differenza. Estraggo dalla borsa la vecchia e fedele RTS-II con l'85/1,4 Zeiss (non so per quale motivo l'ho portato, ma si è trattato di una felice ispirazione). Scatto due o tre istantanee ma quel gioco non mi ispira, penso possa esserci di meglio che cercare di sedurre una statua.

"Ti darebbe fastidio bagnarti?" le chiedo.

"Come sarebbe?"

"Nel lato sud del parco ho visto delle finte rocce e una cascatella. Potremmo spostarci là e giocare con l'acqua…"

Esita un attimo, ci pensa, poi ride divertita: "Dài, facciamolo!"

Proviamo due o tre inquadrature accanto alla cascata, sulle rocce bagnate e rese brillanti dal sole. Poi, senza preavviso, lei entra. L'acqua la investe dall'alto, le scorre sul corpo mettendone in risalto le forme. Non sta ferma un attimo ed ogni sua posa è perfetta, deve avere la danza nel sangue. E' ancora completamente nuda.

"Senti, ci tieni tanto a quel vestito di seta?" le chiedo all'improvviso.

"Non me ne potrebbe fregare di meno, perché?"

"E allora mettilo."

Lo indossa e torna sotto la cascata. L'abito bagnato aderisce al suo corpo e come mi aspettavo crea drappeggi inusuali, sottolinea le forme, crea contrasti cromatici con la sua pelle lucida e abbronzata.

Giochiamo così fino al tramonto, spostandoci ogni volta là dove la geografia di quel giardino pazzesco stimola la nostra fantasia. Le propongo inquadrature e posizioni e per quanto strane siano le mie richieste non mi dice mai di no. Non è più fotografia, è un gioco di seduzione che si sta facendo sempre più pericoloso. Lei è instancabile nel suo incedere flessuoso e quasi frenetico. La fotografo con il dito premuto sul pulsante di scatto, il winder in azione, l'obiettivo regolato sui diaframmi più aperti per sfocare lo sfondo e consentirmi i tempi necessari a fermare la sua danza incessante. Mi ricorda certe libellule, o le effimere che si librano sugli stagni per la danza d'amore, nel loro unico e appassionato giorno di vita. Avverte il ritmo degli scatti e vi si adegua, rallenta quando io rallento, accelera quando il winder incalza come un cuore impazzito: tlac-wrr, tlac-wrr, tlactlactlac…

Il sole al tramonto illumina di riflessi ramati i suoi capelli, fa brillare la peluria bionda delle spalle, colora di rosso la pelle nuda. Ha il corpo di un'adolescente.

Una perfetta sintonia si è creata fra noi, penso che è un po' come fare l'amore e il pensiero mi spaventa. Che diavolo sto facendo?

"Okay, ho finito il rullino" mento.

"No…"

"No?"

"E' stato troppo bello, è stato come fare l'amore, ti prego continuiamo."

"Non credo sia il caso" ribatto, ma senza freddezza, anzi con tenerezza e una punta di rammarico.

"Tu sei speciale, sai?"

"Smettila… non mi conosci. E sei una donna sposata."

"Oh, è come se non lo fossi… Non ti piaccio, vero?"

"Non è questo, e lo sai bene. Ma non credo che un'avventura con me migliorerebbe la situazione. Fermiamoci prima che sia tardi, okay?"

"Lo vuoi davvero?"

"Sì" rispondo, ed è la seconda menzogna nel giro di pochi secondi.

Si avvicina. Mi prende la mano, si alza in punta di piedi (quei suoi piccoli piedi nudi da creatura dei boschi, sporchi di foglie e terriccio) e mi sfiora la guancia con un casto bacio d'addio. Rimango immobile e in silenzio, non so reagire, mi sento smarrito.

"Tornerai?"

"No, non credo."

"E le foto?"

"Te le spedirò con un Pony Express."

"Finisce così?"

Esito, vorrei poterle dire di no. Non so dare un significato al mio silenzio. Lo fa lei per me. Abbassa gli occhi e mi sfiora appena la mano, come se temesse un contatto più stretto, poi d'improvviso mi volta le spalle e si avvia verso la villa. Nel suo "grazie" appena sussurrato c'è un intero universo.

Torno a casa di pessimo umore. A inquietarmi non è l'atmosfera cupa del giardino, ma la consapevolezza che per quella giovane donna ricca, sola ed annoiata io e la mia fotografia siamo stati l'unico momento di sole in un'esistenza da prigioniera, l'occasione inattesa per far esplodere un'allegria e una vitalità troppo a lungo soffocate. Non sono sicuro che questo sia stato un bene per lei e in fondo mi sento in colpa. Ma per che cosa? Per averle fatto balenare la possibilità di una vita diversa o per non avere spinto più avanti il nostro gioco? Diventare amanti… Ma se così fosse stato, dove ci avrebbe portati tutto questo? Che esito avrebbe avuto una storia fondata sulla voglia di evadere?

Ma caspita, è mai possibile che certi uomini non si accorgano della ricchezza che hanno con donne del genere? Possibile che il maledetto lavoro e la maledetta carriera siano un valore importante al punto da abbandonare tua moglie? Che accidenti te ne fai dei soldi se poi non ti prendi il tempo di goderteli in compagnia della donna che ha scelto di condividere con te la sua vita? E alla fine, maledizione, è mai possibile che la gente si renda conto di quello che ha solo quando lo perde? Ma questa è una cosa che non si può insegnare, bisogna provarla; bisogna prendersi le sberle che la vita ha regalato a me per chiarire in modo univoco la propria scala di valori.

Più e più volte, con l'ossessione di un sogno ricorrente, mi vedo tornare indietro, suonare il campanello della villa e correre a stringerla tra le mie braccia, ma l'Astra continua a viaggiare ostinata e veloce verso casa.

Dieci giorni dopo le feci avere le foto stampate. Il marito mi telefonò un paio di volte per sollecitare la fattura e per chiedermi come volevo essere pagato, poi, visto che io non mandavo nulla, non chiamò più.

Due anni dopo, quando ormai la mia vita aveva imboccato una strada nuova e del tutto inattesa, chiesi notizie a una mia amica musicista, che abita in una cascina lì vicino e sa sempre tutto quel che succede nei dintorni.

Seppi così che la bionda signora non c'era più: pochi mesi prima una dose eccessiva di non so quale psicofarmaco aveva spento per sempre il suo sorriso triste.

La sua voglia di vivere, invece, quella che avevo visto esplodere con prepotenza durante quel pomeriggio di fotografia, si era spenta a poco a poco, come il canto di una creatura di luce costretta a vivere troppo a lungo in luoghi angusti e oscuri. Come le effimere, aveva danzato nel sole il suo unico giorno appassionato.

Rimpianti? Io non mi volto mai indietro e non mi chiedo "come sarebbe andata se", so per esperienza che è inutile e dannoso. Di questa storia mi rimane soltanto un ricordo dolce e triste, come di tante altre storie che hanno trovato spazio nello zaino della mia vita. Uno zaino pesante.

Michele Vacchiano © 09/2003
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