TRAGICO WORKSHOP
Michele Vacchiano, luglio 2001

Prendete un fotografo naturalista, affidategli sette persone che non si sono mai incontrate prima, inserite il tutto in un ambiente di alta montagna...

"Quanti sono?"
All'altro capo del filo qualcuno incominciò a scartabellare dei documenti, poi - dopo un interminabile numero di scatti - si degnò di darmi risposta: "Sette. Bastano?"
"Sì, bastano" risposi. Non amo i bagni di folla e so per esperienza che quanto meno numerosa è la classe tanto meglio si lavora. Dopo tutto l'importante è parlare di fotografia ricavandoci almeno le spese della trasferta. Gli amici dicono che questo mio modo di fare mi porterà sulla soglia della miseria, ma io non so che farci, sono fatto così. Comunque avevo saputo quello che mi interessava.

Così due giorni dopo carico in macchina il mio zaino sempre stracolmo, gli scarponi, i bastoncini da trekking e parto per Valnontey. Lo so, il rifugio Vittorio Sella è una meta forse troppo conosciuta e frequentata, ma chi si iscrive a un workshop di fotografia della natura vuole essenzialmente vedere gli animali e lì ne è pieno: ormai gli stambecchi sono talmente abituati alla presenza dell'uomo che potete avvicinarli come se fossero mucche. I maschi, perché le femmine con i piccoli sono tutta un'altra faccenda. E poi ci sono i camosci, i gracchi alpini, le marmotte... Se si evita la domenica non è difficile attirare un cucciolo peloso offrendogli grissini o biscotti.

Sulla carta dell'Europa la Valle d'Aosta è poco più grande di un'unghia ma le distanze sono enormi. Il fatto è che le strade sono tutte una curva. Scendere da Fenilliaz, percorrere l'autostrada da Verrès ad Aosta ovest e risalire la Valle di Cogne richiede non meno di un'ora e mezza: praticamente come arrivarci da Torino. Così per essere alle otto davanti ai cancelli del giardino alpino Paradisia devo alzarmi alle sei. Qui uscire al mattino presto è una sensazione unica. Il canto degli uccelli e il gorgoglìo della sorgente che sgorga accanto a casa sono gli unici rumori che percepisco. Alle narici giunge il profumo di un fuoco di legna: qualcuno, nel villaggio, ha già acceso il camino. Fenilliaz è un minuscolo paese di vecchie case, popolato da mucche, allevatori e qualche abitante della pianura che ha scoperto la meraviglia dell'abitare quassù. È vero, se dimentichi il latte devi farti sei chilometri di strada (o, a scelta, un'ora di sentiero) per scendere fino a Brusson, ma dalla finestra della mia camera da letto vedo le Dames de Challant e tutto l'opposto versante della valle grande, le montagne di Champorcher fino alla Rosa dei Banchi che all'alba tinge di rosa i suoi ghiacciai.

È agosto, ma a quest'ora l'aria punge. In questa valle l'aria del mattino ha il sapore dell'acqua, come sulle rive di un grande lago: forse è la brezza che per tutta la notte ha spirato dalle vette, portando giù il profumo delle nevi eterne e dei ghiacciai sterminati del Monte Rosa, o forse è l'odore delle nebbie che si condensano in fondovalle, dando a chi è quassù l'impressione di vivere sulla riva di un fiordo, tanto è fitto il mare di nubi giù in basso.

Quando arrivo a Valnontey sono le otto meno dieci. Parcheggio nel solito piazzale del ristorante, dove si fermano tutti anche se in teoria sarebbe riservato ai clienti, e mi avvio verso Paradisia. Il giardino botanico è chiuso, a quest'ora, ma essendo molto conosciuto è sempre un ottimo posto per un appuntamento. Non c'è ancora nessuno: ho tempo per guardarmi un po' intorno.

La Valnontey è come il cortile di casa: ne conosco ogni angolo, ogni taglio di luce, riconosco il colore dei fiori e il profumo dell'aria come amici che ritrovo sempre con gioia, per quanto a lungo ne sia rimasto lontano. La mattina profuma di resina: la brezza di monte porta verso il villaggio gli incanti e i sussurri della foresta. Non appena il sole avrà riscaldato gli strati d'aria più bassi la direzione del vento cambierà e la brezza di valle reclamerà il predominio, disegnando candidi fiocchi di panna sullo sfondo cobalto del cielo.

Sto osservando un puntino lontano che volteggia sopra la vetta della Rocciaviva quando mi sento chiamare: "Il dottor Vacchiano è lei?" Sono i primi ad arrivare, marito e moglie, sulla cinquantina. Non so perché, mi ricordano Enrico la Talpa e la moglie Cesira, i noti personaggi dei fumetti di Lupo Alberto. Lui calza un paio di sandali, tipo birkenstock, con la suola in cuoio. Penso che da qualche parte abbia un paio di scarponi, che si infilerà al momento di partire, e non dico nulla. Chi parla è la moglie. Parla in continuazione, non sta zitta un secondo. In tre minuti netti apprendo che lei non è mai stata in montagna, che non gliene potrebbe fregare di meno, che odia la fotografia e che è lì soltanto per via di suo marito il quale praticamente ce l'ha trascinata a forza. Do un'occhiata all'uomo nella speranza di un suo intervento (qualcuno dovrebbe pur sapere come spegnerla), ma quello rimane impassibile, come se nulla fosse. Forse è abituato, o forse ormai è rassegnato. Comunque la signora non sa se avrà voglia di salire fino al rifugio per cui il gruppo dovrà considerare la possibilità di tornare indietro a metà strada. Le spiego, con la cortesia impostami dal ruolo che ricopro, che - se del caso - sarà lei a tornare indietro e non certo il gruppo, composto da persone che hanno pagato per trascorrere un'intera giornata in montagna a fotografare sotto la guida di un esperto. Mi risponde che se è per quello anche lei è esperta di cucito. Non capisco la battuta ma annuisco sorridendo.

Nei cinque minuti successivi arrivano anche gli altri. Per primi due tipi atletici e aitanti, padre e figlio di Reggio Emilia, praticamente identici se non fosse per le rughe e il colore dei capelli. Indossano zaini mostruosi, come se dovessero affrontare un trekking di quindici giorni attraverso le steppe dell'Asia centrale.

Poi un poliziotto di Roma, in canottiera e pantaloncini corti. Si presenta con una stretta di mano granitica: "Osvaldo". Non ha zaino, solo un voluminoso marsupio contenente la macchina fotografica e i panini. Gli suggerisco discretamente che in montagna il tempo cambia in fretta e che sarebbe stato il caso di portare con sé un maglione e un paio di pantaloni di ricambio. Mi risponde, con un garbato giro di parole, di farmi gli affari miei, ché lui al freddo e al caldo è abituato. Reprimo a stento un sogghigno sarcastico (in occasioni formali so dissimulare con abilità), ma non posso non pensare al rischio che sta correndo. Oh, beh, io l'ho avvertito.

Il sesto partecipante è Luciano, un giovane fotografo milanese. E' specializzato in fotografia di cerimonia ma si è iscritto al workshop perché gli piace la fotografia della natura. Si presenta in scarpe da tennis, con la Zenza Bronica appesa al collo.
"Mi scusi se mi permetto" azzardo, "ma lei non mangia?"
"In che senso?" mi domanda stupito.
"Beh, nel senso che non ha con sé acqua, panini o generi di conforto..."
"Ah, ma pranziamo fuori?"
"No, cioè, scusi, dove vorrebbe pranzare?"
"Ma, non so, qui intorno..."
Rimane molto stupito quando gli spiego che c'è da camminare almeno tre ore in salita, lungo un sentiero dove non troveremo né bar né - soprattutto - acqua da bere.
"Ma come, con tutta l'acqua che c'è in montagna?"
Gli spiego un paio di cose sull'acqua di montagna e sullo svolgimento del workshop (evidentemente non ha letto la locandina perché lì io spiego sempre tutto con maniacale pignoleria), poi lo convinco a correre in paese per comperarsi da mangiare.

Nel frattempo arriva l'ultima partecipante: una signora di Cuneo, giovane e decisamente affascinante, piuttosto raffinata a giudicare dagli orecchini di perle e dalle unghie accuratamente laccate. Indossa pantaloncini corti (molto corti!) e un paio di scarponi nuovi di pacca, con i calzettoni vezzosamente arrotolati sulla caviglia. Saluta con ostentata nonchalance, come una principessa di sangue reale in visita alle truppe di terra, senza neppure togliersi gli occhiali a specchio (peccato, mi sarebbe piaciuto vedere di che colore ha gli occhi). È una di quelle donne che ti parlano con il nasino rivolto all'insù. Penso fra me che potrebbe darci dei problemi (sembra la solita schizzinosa a cui non va mai bene niente) ma mi ricredo subito: no, non è esperta di fotografia ma si è fatta una mezza dozzina di quattromila sulle Alpi, senza contare un paio di trekking himalayani e un viaggetto in America latina con vetta da seimila metri inclusa nel tour. Dice di chiamarsi Diana. Pensavo che un nome simile lo avessero solo i cani da caccia e le americane.

Bene, il gruppo non potrebbe essere più scompagnato, ma dopotutto è questo il bello della situazione. Fornisco due dritte sullo svolgimento della giornata e finalmente si parte.

I primi cento metri di dislivello lungo il sentiero del Lauson si fanno in silenzio: al mattino presto quel versante è ancora in ombra, il percorso è ripido e accidentato: due fattori che non invogliano alla conversazione. Ci innalziamo di una trentina di metri prima che lo sguardo mi cada sui piedi del signore cinquantenne.
"Mi scusi, ma lei non mette gli scarponi?"
"No, perché?"
"Mah, direi che sarebbe il caso: i sandali aperti non sono l'ideale sui sentieri di montagna..."
"Oh, non si preoccupi, sono abituato."
La seconda risposta del genere in meno di venti minuti! Ma qui si tratta di vera incoscienza: in montagna le scarpe ti possono salvare la vita e qui con tutti i sassi che ci sono non ci vuol niente a scivolare, con quelle stupide suole di cuoio. Gli suggerisco discretamente di rinunciare, piuttosto gli restituisco i soldi, ma lui non intende ragioni, come del resto mi aspettavo. Vuol dire che gli resterò accanto e lo terrò d'occhio, evitandogli i passaggi potenzialmente più pericolosi. Del resto, sembra che se la stia cavando egregiamente.

Dopo circa mezz'ora di cammino propongo al gruppo di fermarsi. Forse loro non lo apprezzeranno quanto me, ma la natura sta per rappresentare lo spettacolo che più amo al mondo. Di fronte a noi, dietro le cime innevate dell'opposto versante, sta per sorgere il sole. La linea d'ombra scende rapidamente lungo il pendio alle nostre spalle e tra poco ci sorpasserà. In quel momento vedremo il sole affacciarsi dietro la cresta di roccia e ghiaccio e sembrerà che siano le montagne a generare quel trionfo di luce.

Dapprima un lieve lucore, poi l'orlo superiore del ghiacciaio che si accende d'argento, poi una fetta di sole che presto diviene abbagliante e inonda di sé la vallata. Il piccolo popolo che vive tra i fiori si sveglia all'improvviso e coleotteri, api, formiche e farfalle di ogni specie inondano il prato di voli e colori, mentre migliaia di cavallette innamorate iniziano ad accordare i loro strumenti. Lascio che il gruppo mi sorpassi (forse non capiscono perché li ho fermati), traccio un rapido segno di croce e apro il mio animo alla gratitudine. È il mio modo di pregare, quando sorge il sole in montagna.

La luce scioglie la fatica e invoglia alla conversazione. I due di Reggio Emilia avanzano con determinazione, scambiandosi ogni tanto qualche battuta di incoraggiamento. Affrontano il sentiero come se dovessero battere un record di durata, con quei loro zaini affardellati all'inverosimile. Mi auguro che almeno siano pieni di attrezzature fotografiche. Enrico La Talpa e la moglie stanno litigando, proprio come nei fumetti, ma non mi soffermo ad ascoltare di che cosa parlano. Il fotografo milanese e il poliziotto stanno incollati alla giovane signora come le seppie all'epoca dell'accoppiamento. Lei cammina con passo elastico e costante, altezzosa e taciturna, con l'atteggiamento distaccato di chi è abituata al corteggiamento e lo considera un effetto collaterale della vita, un aspetto dell'esistenza inevitabile del quale - di conseguenza - non vale la pena curarsi. Ritengo che se la cavi benissimo da sola e mi guardo bene dal cercare di liberarla.

Dopo un'ora e mezza di cammino propongo la prima sosta. Stiamo procedendo più lentamente del dovuto, soprattutto a causa della signora Cesira (ormai la chiamo così, del resto non si è presentata) che procede a fatica. Se solo smettesse per un istante di parlare forse troverebbe il fiato per salire.

Approfitto della fermata per descrivere quanto abbiamo intorno. Il gruppo degli Apostoli si erge sul ghiacciaio di Money in tutto il suo splendore, illuminato dal parziale controluce. Indico le cime nominandole ad una ad una e finalmente vedo spuntare le prime macchine fotografiche. Padre e figlio appoggiano in terra gli zaini e li aprono. Adesso voglio proprio vedere che razza di mostruosità si portano lì dentro… Reprimo a stento un grido di sorpresa quando vedo spuntare due Nikon Coolpix!
"Ehm... ma… il resto del corredo?" azzardo timidamente.
"Ah no, noi abbiamo solo queste."
Decido che non voglio morire senza prima sapere che cosa accidenti c'è dentro quegli zaini.
"No, è solo che… pensavo che con degli zaini così…"
"Ah, quelli. No, no, è che se mettevamo la reflex non ci stava il mangiare."
Ora, io in montagna mangio (quando mangio) una mela e tre fette di speck accompagnate da pane nero. Se proprio decido di esagerare, finisco con una fetta di toma. Il mio pranzo sta in un marsupio, o in una delle tasche esterne dello zaino. Ma questi che cosa diavolo si saranno portati!? Decido di soprassedere, dopo tutto sono già stato indiscreto, ma vedo che la mia curiosità è condivisa dal resto del gruppo.

Il poliziotto in canottiera ha le spalle quasi ustionate. Gli offro la mia camicia di ricambio ma ottengo un fermo rifiuto. Capisco bene le ragioni per cui fa il duro, ma non credo che le sue vanterie da macho serviranno a renderlo interessante agli occhi di Diana. Sicuramente serviranno a procurargli un eritema solare. Questa sera avrà la febbre, a meno che non muoia prima di insolazione: ha il cranio rasato e ovviamente è senza berretto.

Intanto lei, l'oggetto del desiderio, si sfila lo zainetto con grazia felina e ne estrae una camicetta candida. Camminando con la flessuosità di un'indossatrice si allontana un poco dal gruppo per cambiarsi. Torna dopo un paio di minuti e si siede su una roccia per spalmarsi di crema solare. Si massaggia con studiata lentezza le gambe lisce e abbronzate, con il capo reclinato e i biondi capelli ricci appena mossi dal vento. Il giovane milanese è quasi in trance: vorrei suggerirgli almeno di chiudere la bocca ed evitare di gemere, oltretutto non sta bene fissare una ragazza senza nemmeno battere le ciglia. Dal canto suo Osvaldo insiste nel suo atteggiamento da maschio ruspante: si toglie la canottiera e inspira profondamente l'aria dei duemila metri, gonfiando il petto villoso. Ma la bella non lo degna di uno sguardo e continua imperterrita ad accarezzarsi le gambe. Sinceramente non capisco perché lo faccia. Forse le piace provocare, magari ha deciso di farsi notare (ma da chi?) o forse è semplicemente fatta così, rilassata e spontanea. Ma a pensarci bene quest'ultima ipotesi non regge: in realtà l'immagine della "madamin" di provincia, tanto ingenua e candida quanto attraente, mal si adatta alla nostra amica, troppo consapevole dei propri pregi per non farne un uso sapiente e deliberato. Mi chiedo soltanto a chi siano destinate le sue esibizioni.

Decido che la sosta è durata abbastanza e do il segnale di partenza. Tra poco usciremo dal bosco e affronteremo quel lungo traverso, meno accidentato ma decisamente più assolato, che qui chiamano "la tiralunga". E' il momento di incominciare a parlare, descrivere, raccontare, per vincere la noia e la fatica della salita. Mi lancio in un'accurata descrizione della geologia della valle, scomodo movimenti tettonici e glaciazioni quaternarie, suscito un vivo interesse soprattutto in Diana (e per simbiosi in Luciano, che le sta appiccicato come un'ostrica vibrando all'unisono con lei). La fanciulla cammina con passo costante, come chi è abituato alla montagna, senza mostrare il minimo segno di affaticamento. Interviene nel mio discorso con domande intelligenti e puntuali, ma senza sciupare una parola in più di quelle strettamente necessarie.

Io cambio spesso posizione all'interno della fila: non voglio che qualcuno si senta trascurato, per cui ogni tanto mi fermo ad aspettare gli ultimi (Enrico La Talpa e sua moglie) oppure accelero il passo per tentare di rallentare i primi. Osvaldo e i due di Reggio Emilia sembrano giocare a chi è più duro e spesso devo fermarli con una scusa se voglio evitare che il gruppo si disperda. Così fatico il doppio degli altri, ma anche questo fa parte del mio ruolo.

Sto camminando alla testa del gruppo, nel tentativo di rallentare un po' gli aspiranti Rambo, quando con la coda dell'occhio percepisco una figura che si avvicina rapidamente. Penso che sia un escursionista che ha fretta e mi faccio da parte per lasciarlo passare. Ma d'un tratto mi sento afferrare il braccio: è un tocco morbido e gentile. Non so come sia riuscita a liberarsi di Luciano, ma adesso cammina accanto a me e mi invita ad accelerare il passo per parlarmi a quattr'occhi.
"Ma questi dove li hai trovati?" mi sussurra divertita.
Mi stupisco dell'improvvisa confidenza ma devo ammettere che non ne sono dispiaciuto.
"Mah, hanno letto del workshop da qualche parte e si sono iscritti, esattamente come hai fatto tu."
"Ma hai visto che tipi? C'è quel Luciano che sembra Vinavil, e poi quell'altro, Er Puzza..."
"Chi!?" Sto per scoppiare a ridere.
"Il romano, il poliziotto. Non hai sentito come gli puzzano le ascelle?"
"Beh, sudiamo tutti" ribatto senza convinzione.
"Sì, ma si vede che lui non si lava: sembra che stringa sotto le ascelle un paio di aringhe andate a male!"
È davvero troppo divertente! Noi le corteggiamo, le coccoliamo, facciamo la ruota come i pavoni nel tentativo di farci belli ai loro occhi, ci facciamo umili come cagnolini che mendicano una carezza e loro sono capaci di demolirci in un solo istante con un'etichetta che in realtà è una condanna definitiva e inappellabile. Non cesserò mai di stupirmi delle donne. E non cesserò mai di adorarle per questo!

Adesso Diana chiacchiera, si confida, si informa su di me con domande sempre meno indirette. Ma io non posso isolarmi con lei e devo prestare la stessa attenzione a tutti. Alla fine della "tiralunga" propongo una sosta.
"Il tratto che viene adesso" spiego "è il più faticoso e caldo, ma per fortuna è anche l'ultimo. Qui viene confidenzialmente chiamato "la graticola", non tanto per l'effetto del sole (che pure è notevole) quanto per tutti i sentierini secondari che lo attraversano e che tagliano i tornanti della mulattiera. Vi invito in ogni caso a seguire il tracciato principale: imboccare le scorciatoie è una cattiva abitudine che non soltanto rovina il sentiero, ma causa anche il ruscellamento dell'acqua piovana e il conseguente dilavamento del terreno. La montagna è un ambiente fragile che va preservato anche con queste piccole attenzioni."
Il mio predicozzo viene accolto con malcelato fastidio da Osvaldo e dalla famiglia Rambo, che già pensavano, evidentemente, di tagliare su dritto lungo le scorciatoie. La coppia cinquantenne accoglie invece l'invito con gratitudine: la mulattiera principale è più lunga ma molto più dolce.

"Ehi, hai visto come ti ha guardato Er Puzza?"
"Ti prego, non chiamarlo più così, altrimenti rischio di scoppiare a ridergli in faccia! Piuttosto, credi che avrei dovuto essere meno pedante?"
"Sei stato bravissimo!" mi sussurra, accostando le labbra al mio orecchio e quasi sfiorandomi.
Ancora non capisco se stia cercando di provocarmi o se questo sia proprio il suo modo di fare. In ogni caso vorrei evitare che gli altri percepissero un'eccessiva confidenza tra noi. Mi volto verso il gruppo e mi accorgo che l'atteggiamento di Diana non è passato inosservato: dagli occhi di Osvaldo escono pugnali, mentre Luciano sembra sgomento. Entrambi mi considerano ormai un rivale, e a quanto pare un rivale vincente. Maledizione, sono proprio queste dinamiche (che spesso si creano all'interno dei gruppi) a mandarmi in bestia. Siamo qui per parlare di fotografia e non per intessere la trama di un romanzo d'appendice! Diana è decisamente attraente e il suo modo di fare sarebbe in grado di sedurre un sasso, ma questa è una considerazione superficiale che non mi coinvolge emotivamente. Sono felicemente sposato e non mi interessano le avventure. Decido che il gioco è durato abbastanza e mi porto in coda alla fila, dove Enrico La Talpa cerca di convincere la moglie a mantenere il passo.
"È stanca, signora?" domando premuroso.
"Eh, cosa vuole, non ho mica più i suoi anni, io! Quando avevo la sua età, eeeh, ne facevo di cose, sa? E non ero mica tanto diversa da quella là davanti, sa? Eeeh, beata gioventù! Siete sempre freschi, ve': freschi di fuori e caldi di dentro. Vi ho visti, sa, che cosa sta per nascere…"
"Eh!?… mannò, signora, guardi che non sta per…"
"Eeeh, valàvalàvalà, che io i giovani li conosco, sa? La paglia e il fuoco, altro che balle!"
Non so se ridere o sprofondare dalla vergogna. Oltretutto madama Cesira dev'essere orba come una mela a non accorgersi che ho quasi la sua stessa età e che tra me e la bella Diana ci corrono almeno vent'anni. Devo a tutti i costi cercare di recuperare un po' di credibilità.

Ma mi accorgo presto che la cosa è più difficile del previsto. Ormai la fanciulla mi ha preso di mira e ha deciso di giocare pesante. Credo che la cosa la diverta. Quando arriviamo in vista del rifugio la compagine del gruppo è ormai definitivamente fissata: in testa padre e figlio, distrutti ma non domi, che arrancano caparbiamente grondando rivoletti di sudore; poi io e Diana, fresca come una rosa, che nel frattempo si è tolta la camicetta rivelando una scollatissima canottiera bianca, perfetta per mettere in risalto l'abbronzatura. Ovviamente è senza reggiseno, ben consapevole di non averne bisogno. Non ho modo di contrastarla: se anche cambiassi posizione all'interno della fila lei mi seguirebbe. Continua a parlarmi con fare civettuolo, per nulla intimidita dal mio atteggiamento prudente e decisamente distaccato. Dietro di noi Er Puzza e Vinavil, pardon, Osvaldo e Luciano, ormai rassegnati, e infine la coppia di ferro. Litigano in continuazione ma evidentemente hanno trovato un loro equilibrio, visto che vivono ancora insieme.

Il rifugio Vittorio Sella è un insieme di costruzioni raggruppate ai piedi della conca del Lauson. Il corpo principale ospita il ristorante e le camere, mentre la sezione invernale è rappresentata dall'originaria casa di caccia di re Vittorio Emanuele. In anni più recenti è stata aggiunta una terza costruzione, che funziona come bar-gelateria nel periodo estivo. Ci accomodiamo ai tavolini di plastica, sotto un ombrellone che ricorda Rimini piuttosto che le Alpi, e incominciamo a riprendere fiato. Ovviamente Diana fa in modo di sedersi accanto a me. Abbiamo impiegato quattro ore per un percorso che normalmente io faccio in due, senza peraltro spingere troppo. Per quanto mi riguarda sono piuttosto stanco, anche perché in questi casi uno deve fare come i cani da pastore e correre avanti e indietro cercando di tenere tutti uniti.
"Bene!" proclama Reggio Emilia senior, "siamo arrivati?"
"Ehm, non proprio" spiego. "Siamo arrivati al rifugio, dove possiamo fermarci a riposare un po', ma se volete vedere gli animali bisogna salire verso il Col Lauson. Di solito, in prossimità del bivio che porta al Colle della Rossa, stazionano branchi di stambecchi."
"Quanto ci vuole?" domanda Enrico La Talpa con voce supplice.
"Se tutto va bene non più di un'ora. Il fatto è che non posso garantire che gli animali non siano saliti più in alto. A quest'ora della giornata tendono a occupare territori più elevati, per poi scendere di nuovo verso sera. Comunque se non sono lì saranno poco più sopra."
Luciano mugugna. Hanno pagato per fotografare gli animali e non per scarpinare. Forse l'Ente Parco è disorganizzato: dovrebbe fare in modo di portarglieli un po' più vicini. Spiego che un parco nazionale non è uno zoosafari ma proprio un pezzo di territorio lasciato a se stesso, ai suoi ritmi e ai suoi equilibri: sono i visitatori che si devono adattare alla natura e non viceversa.
"Capisco" risponde sconsolato, "ma il tratto più lungo che io abbia mai percorso a piedi è da Piazza Duomo a San Babila il sabato pomeriggio per fare lo shopping!"
Prometto che la sosta sarà sufficientemente lunga e defatigante e annuncio che chi vuole può mangiare: dopotutto sono le dodici e mezza.

"Che cosa c'è lì dentro?" domanda Diana indicando il bar.
"Lì c'è un piccolo bar-gelateria e vendono anche qualche souvenir" rispondo.
Senza una parola lei si alza ed entra nel locale. Ne emerge dopo pochi minuti indossando un berrettino bianco con il logo del parco nazionale. È deliziosa, maledizione!

Gli unici che sembrano insensibili al suo fascino sono i due di Reggio Emilia, che senza una parola aprono all'unisono i loro zaini. Ne estraggono contenitori di ogni tipo, fra cui un gigantesco barattolone termico che da solo deve pesare due chili. La curiosità del gruppo è alle stelle. I due occupano l'intero tavolo con le loro cose. Alla fine sul piccolo tavolino in plastica trionfano due bottiglioni di lambrusco, un quarto di forma di parmigiano, mezza mortadella, due forme di pane casereccio, mentre dal contenitore misterioso, finalmente aperto, esce e si spande per la vallata l'effluvio inconfondibile delle lasagne al forno.
"Ce n'è per tutti!" esclama il padre, suscitando l'entusiasmo collettivo. Io penso alla mia mela e mi chiedo se il ruolo che ricopro mi imponga di mantenere la sobrietà da monaco shintoista che normalmente mi caratterizza, ma poi decido che fraternizzare con la classe potrebbe rivelarsi più appropriato dal punto di vista didattico...

Prendere il cibo insieme rafforza i legami all'interno del gruppo, rilassa e distende gli animi. Persino Osvaldo depone quel suo atteggiamento da uomo d'acciaio e si apre alla confidenza. Madama Cesira, che ormai ha deciso di rivestire il ruolo di mamma del gruppo, lo convince finalmente ad accettare un po' di crema solare, "Se no stanotte non dormi!"

La tragedia mi piomba addosso senza preavviso. Con aria furbetta la megera si volta verso di me: "E anche lei, professore, mangi, ve', che ne ha bisogno, lei e quella bella signorina lì, che dovete mangiare per tenervi in forze!"
"Ehm, signora, sì, grazie… il fatto è che in montagna non mangio mai molto, sa, per non appesantirmi…"
"Mavalà che non si appesantisce, un bell'uomo come lei, ma lo sa che state proprio bene insieme?"
Non oso guardare in faccia Diana ma so che da lei non mi verrà alcun aiuto. E adesso che faccio? Dico no guardi che non stiamo insieme oppure fingo di apprezzare un complimento che potrebbe anche sembrare innocente (ma forse soltanto a un sordo che per di più non capisse l'italiano)? Decido che la scelta vincente è lasciar correre, come se nulla fosse, ma la pazza insiste: "Eh, due alpinisti veri, sì che andrebbero d'accordo! Ma guardateli un po', sembrano fatti l'uno per l'altra!"
Decido di prenderla con ironia. L'atmosfera si sta facendo pesante e un silenzio imbarazzato si è ormai impadronito del gruppo. Qui o la giro sul ridere o sono perduto.
"Beh" rispondo con il tono più scherzoso di cui sono capace, "non credo che mia moglie approverebbe."
Gli altri capiscono, sorridono, la tensione si scioglie. Mi irrita solo non riuscire a vedere l'espressione di Diana, che seduta accanto a me continua a mangiare come se nulla fosse. Ma la linguaccia ancora non è paga: "Oh ben, e che vuol dire? Oggi come oggi non si guardano più a quelle cose lì. Guardi gli attori della tivì: si prendono, si lasciano e vivono tutti felici e contenti, mica come me che sono obbligata a tenermi questo musone tutta la vita! Eeeh, voi giovani ci avete tutta la vita davanti… Godetevela!"
"Bene!" taglio corto, alzandomi, "grazie per il suggerimento. Adesso che ne dite di ripartire?"
L'improvviso cambio di argomento zittisce finalmente la mia persecutrice e coglie impreparato il resto del gruppo, che reagisce con sorpresa anche se con evidente sollievo.
"Noi vi lasciamo andare" proclamano i due di Reggio Emilia.
"Ma perché?" ribatto sorpreso. "Proprio voi due!"
"È che abbiamo mangiato troppo. Noi siamo soddisfatti così."
"Anch'io resto qui" proclama grazie al cielo madama Cesira.

Così ci incamminiamo verso l'alto in ranghi ridotti: io alla testa del gruppo, sempre affiancato da Diana, dietro Enrico La Talpa, allegro e spensierato, come trasformato dall'inattesa e forse insperata libertà, in coda Osvaldo e Luciano, ormai amici, che chiacchierano amabilmente di fotografia, computer e calcio.

Diana non parla ma mi cammina accanto e ogni tanto mi guarda sorridendo.
"Mi dispiace per prima" esordisco: "quella rompiscatole deve averti messa in imbarazzo…"
"Niente affatto" ribatte, "è stato divertente."
"Sarà. Io non mi sono poi così divertito."
"Evidentemente ti dà fastidio la verità…"
Piccola sfrontata! Adesso basta, devo metterle un freno. Mi volto e vedo che il resto del gruppo è rimasto indietro: un paio di curve del sentiero lo nascondono al nostro sguardo. E' il momento giusto. Mi fermo e costringo Diana a guardarmi negli occhi. Non ho mai fatto un discorso del genere a una ragazza e mi sento terribilmente in imbarazzo.
"Senti, non so quali siano le tue intenzioni e non lo voglio sapere. Il gioco che stai facendo non mi interessa e rischia di mettere in crisi i rapporti all'interno del gruppo. Io sono qui per fare un lavoro e non aspetto altro che di ritornare a casa per passare la serata con la donna che amo, okay?"
Mi fissa con espressione impertinente, il nasino all'insù e il berrettino sfacciatamente calcato sugli occhi: "Ma io non sto giocando. Sto davvero cercando di sedurti." Quando si dice scoprire le carte!
"Ascolta" sospiro sconsolato, "tu sei indubbiamente affascinante ma io sono sposato, adoro mia moglie che è giovane e bella quanto te e non ho intenzione di tradirla. E con questo, per favore, consideriamo chiuso l'argomento."
Pronuncio le ultime parole in fretta e a bassa voce perché il gruppo si è ormai fatto pericolosamente vicino. Per fortuna non sembrano essersi accorti di nulla.

Ho bisogno di respirare un'altra aria e attacco discorso con Enrico La Talpa. Quei suoi sandali di cuoio sono la cosa più incredibile che io abbia mai visto in montagna, soprattutto perché ormai ci ha fatto quasi cinque ore di cammino senza lamentarsi.
"Io non sopporterei gli scarponi" mi confessa: "soffro di male ai piedi e i sandali sono l'unica calzatura che mi posso concedere."

Ormai siamo giunti al bivio. Di fronte a noi, a un'ora di salita, il Col Lauson; a destra il Colle della Rossa. Poco più oltre, seminascosti fra le pietraie, una ventina di stambecchi maschi brucano tranquilli l'erba rada e stenta. Invito i miei allievi a sfoderare l'armamentario, insegno loro come avvicinarsi senza mettere in allarme gli animali. Per fortuna il vento spira verso di noi: possiamo avvicinarci senza essere notati, a meno che qualcuno non si metta a gesticolare. Il gruppo impara subito la tecnica giusta: accovacciati, silenziosi, con una coordinazione quasi perfetta, riusciamo a circondare il branco. Da questo momento saranno i teleobiettivi a parlare.

Restiamo accanto al branco per circa tre quarti d'ora. Io mi avvicino ora all'uno ora all'altro dei miei allievi, che spesso richiedono suggerimenti e consigli. Tutti tranne Diana, che sembra poco interessata alla cosa. Resta seduta su una roccia e si guarda intorno con aria annoiata, come di fronte a uno spettacolo già troppo visto. È evidente che ce l'ha con me, non è il tipo di donna avvezza a ricevere un rifiuto: sia che facesse sul serio sia che si trattasse di un semplice gioco di seduzione, tanto per mettersi alla prova, il suo orgoglio deve esserne uscito un po' malconcio. Spero per lei che questo possa aiutarla a crescere. Sono le quattro quando do il segnale del rientro. Ci ritroviamo al bivio e sono felice nel vedere i miei allievi soddisfatti. Soprattutto sono contenti di avere imparato come avvicinare un animale selvatico oltre a diversi accorgimenti tecnici che ignoravano.

Siamo ormai sulla via del ritorno quando Enrico La Talpa se ne esce con una domanda trabocchetto: "È lontano il Col Lauson?"
"Non più di un'ora" rispondo ingenuamente.
"E quanto è alto?"
"Più o meno tremiladuecento metri."
"Non sono mai stato a tremila metri."
"Beh, non mancherà l'occasione" taglio corto, già paventando quello che sta per chiedermi.
"No" ribatte, "non avrò mai più un'occasione come questa. Io abito a Mantova e questa è l'unica vacanza sulle Alpi che io abbia fatto in tutta la mia vita. Mia moglie è scontenta, odia la montagna, ha visto com'è fatta (accidenti se ho visto com'è fatta!), per cui non mi consentirà mai più di tornare in posti come questo. Per favore, mi lasci invecchiare contento!"
"Senta, sinceramente io non credo che lei ce la possa fare. Il canale detritico che porta al colle è ripido e franoso e lei calza un paio di sandali da spiaggia. C'è un tratto aereo attrezzato con corde fisse e lì è davvero pericoloso per chi non ha esperienza di queste cose."
"Beh, c'è sempre una prima volta, no?"
"Certo, accidenti, ma c'è anche una progressione per gradi! Inoltre è tardissimo: se saliamo al colle adesso non saremo a Valnontey prima delle nove di questa sera."
Cerco inutilmente con lo sguardo la solidarietà di Diana. E' un'alpinista, potrebbe aiutarmi a dissuaderlo. Invece lei rimane in silenzio, guarda altrove, non si sente coinvolta nella discussione. Dev'essere davvero furibonda. Decido di affrontare la questione a viso aperto e di fronte a tutti.
"Diana, io posso anche cercare di accompagnare questo signore al colle, ma mi sentirei molto più sicuro se tu venissi con noi."
"Oh, no, ti prego" ribatte lei con assoluta e premeditata perfidia: "sono stanchissima e ho un terribile mal di testa."
Adesso sono io ad essere furibondo. E va bene, farò da solo. Invito i tre giovani a tornare al rifugio: "Là ci aspetterete insieme agli altri, o a scelta scenderete per conto vostro a Valnontey insieme alla moglie di questo signore. Noi due vi raggiungeremo più tardi." A Osvaldo e Luciano non sembra vero di poter avere Diana tutta per sé. Lei invece mi rivolge un'occhiata inviperita. Mi dispiace bella, ma ciò che è fatto è reso: ti sei rifiutata di darmi una mano e adesso ti godi il ritorno tête-a-tête con Er Puzza e Vinavil.

La salita al colle è più drammatica del previsto. Il mio accompagnatore arranca incerto lungo un sentiero più stretto di quanto si aspettasse. Il ripido scivolo di ghiaia nera che stiamo tagliando obliquamente lo spaventa. Gli propongo di desistere ma lui ostinatamente rifiuta. La salita richiede quasi il doppio del tempo dovuto. Giunti alle corde fisse sono costretto ad afferrargli la mano e a guidarlo passo passo. Quello è l'ultimo ostacolo: in pochi minuti arriviamo al colle. Lo spettacolo è indubbiamente grandioso e per lui certamente inaspettato. Gli mostro le montagne e i ghiacciai della Valsavarenche, della Val di Rhêmes, della Vanoise che quel punto elevato permette di ammirare. Alle nostre spalle lo sguardo abbraccia gran parte del territorio del parco nazionale e solo i contrafforti della Punta Levionaz ci impediscono di ammirare la vetta del Gran Paradiso. È fuori di sé dall'emozione: vuole a tutti i costi una foto ricordo da mostrare ai colleghi. Io sono esausto e non chiedo altro che di tornare a casa. Iniziamo una discesa difficile e laboriosa: sono costretto a tenerlo saldamente per mano se voglio evitare che scivoli a causa delle suole di cuoio. Lui non se ne rende conto, ma ha battuto un record da Guinness dei primati: il primo uomo a salire sul Col Lauson con i sandali da mare. E - ironia della sorte! - non si tratta neppure di un alpinista!

Lungo la strada del ritorno, poco prima del rifugio, incontriamo di nuovo gli stambecchi, che stanno scendendo verso valle per la sera. Enrico La Talpa vuole di nuovo fermarsi per fotografare. Lo odio. Sono stanco, sudato, ho voglia di una doccia e so che non potrò godermela se non tra quattro ore, se va bene. Ho voglia di tornare da Claudia che avrà preparato la trota ai mirtilli e la polenta gratinata sul camino, ho voglia di spogliarmi nudo e di godermi un borghesissimo programma TV prima di crollare esausto sul letto. È dalle sei di stamattina che sono in piedi e mi sono fatto non so quante migliaia di metri di dislivello andando su e giù lungo questo dannato sentiero. Vorrei mandarlo al diavolo ma non posso: sono qui per insegnare a fotografare, lui mi chiede di insegnargli a fotografare e io devo mettermi a sua disposizione, anche se ormai ho superato le dieci ore di lavoro, e non certo dietro una scrivania. Occhei, fermiamoci ancora. Lo avverto che faremo tardi ma a lui non interessa, è abituato a saltare la cena. Io no, ma questo non riveste la minima importanza.

Arriviamo al rifugio alle sette di sera. Gli altri sono già ripartiti per Valnontey. Mi butto giù per il sentiero senza curarmi che lui mi segua o no. Se si fracassa i piedi per colpa di quel suo cazzo di sandali sono fatti suoi e non mi fermerò certo a soccorrerlo. Invece ovviamente non è così, accidenti, mi sento responsabile nei suoi confronti, per cui mi fermo, lo aspetto, gli do persino la mano quando c'è da superare un passo un po' alto e lui non ce la fa perché è stanco, gli venissero le vesciche a tutte le dita dei piedi!

Raggiungiamo il parcheggio che sono le nove. Splendido: sarò a casa alle dieci e mezza e mangerò una trota ai mirtilli praticamente putrefatta, a meno che Claudia non me la scaraventi in faccia non appena avrò varcato la soglia di casa.

"È stato un piacere: non mi sono mai divertito tanto! Adesso ho proprio voglia di godermi una birra!" azzarda il bastardo al momento del commiato. Devo fare appello a tutto il mio addestramento da manager per non rispondergli che per quanto mi riguarda può annegarcisi, nella birra, oppure tornare a Mantova e seppellircisi per il resto della vita, perché se lo incontro in giro per il mondo gli sputo in un occhio, così gli bofonchio due frasi di circostanza, salto in macchina e parto sgommando.

Mi fermo quasi inchiodando poco oltre il ponte, davanti al chioschetto dei souvenir. Diana è in piedi al bordo della strada, con i suoi pantaloncini bollenti, gli occhiali da sole e il berrettino bianco ben calcato sui riccioli biondi. Un'autostoppista che nessun maschio normale lascerebbe a piedi.
"Dove ti porto?"
"Solo fino a Cogne, all'albergo Belvedere, alloggio lì."
Percorriamo in assoluto, raggelante silenzio i pochi chilometri che separano Valnontey da Cogne.
"Sei arrivata" annuncio parcheggiando davanti al Belvedere. Lei esita. Si volta verso di me e si toglie gli occhiali da sole. Finalmente posso guardarla negli occhi. Non ho mai visto occhi così profondamente azzurri. Ricordano il mare di notte, le profondità dei ghiacciai, la gelida trasparenza dei laghi alpini. Sembra volermi dire qualcosa, sospira, poi scuote la testa come a scacciare un pensiero improvviso.
"Ciao" le dico, nient'altro. Voglio che scenda dalla macchina e che lo faccia subito. Voglio tornare a casa.
"Ci rivedremo?" Lo dice con un filo di voce, come se non volesse sentire la risposta.
"No." Non riesco a dire altro. Vorrei aggiungere Diana dimenticami non sono l'uomo giusto per te ma non me la sento, non ne sono capace, le parole muoiono prima di essere pronunciate. Meglio così. Però adesso per favore scendi dalla macchina e non voltarti indietro.

Guido verso Fenilliaz in una specie di trance e non penso ad altro che a tornare a casa. Sono stravolto dalla stanchezza e l'unico pensiero che mi impedisce di addormentarmi al volante è l'abbraccio di Claudia. Le ho telefonato da Cogne chiedendole scusa, sono in ritardo, siamo scesi solo adesso, perdonami, farò tardi, e lei mi ha risposto non importa, vai piano, stai attento, ti aspetto, non vedo l'ora che tu sia qui.

Il suono acuto e dissonante del telefono cellulare mi entra nel sogno. Riesco a svegliarmi con estrema fatica e do un'occhiata alla radiosveglia: le dieci del mattino! Con uno sforzo sovrumano afferro il dannato aggeggio: "Pronto!"

È Laura Poggio, la direttrice del giardino alpino Paradisia: "Che cosa hai combinato ieri sera?"
Cado dalle nuvole, che cosa dovrei avere combinato? Bene, sembra che madama Cesira, giunta in albergo ben prima del marito, si sia allarmata nel non vederlo arrivare ed abbia allertato, nell'ordine:

  1. I carabinieri di Cogne;
  2. Il 118;
  3. Il soccorso alpino di Aosta.

Per un'ispirazione divina i carabinieri avevano telefonato a casa di Laura, chiedendole se non sapesse nulla di un partecipante a un workshop di fotografia che non si faceva vivo. Conoscendomi e sapendo che di solito non disperdo la gente in giro per i monti, lei aveva suggerito di aspettare: un'operazione di soccorso alpino è una faccenda complessa e decisamente costosa, e poiché lungo il sentiero del Lauson non ci sono pericoli oggettivi, a meno che uno non se li vada a cercare, era certa che si trattasse di un semplice ritardo.

La cosa però non mi quadra. È vero che io ed Enrico La Talpa siamo scesi più tardi rispetto agli altri, ma non tanto da generare un simile allarme. Bastava fare due conti relativi ai tempi di percorrenza per capire che tutto sommato non si trattava di un ritardo significativo.
"Ma a che ora è poi tornato in albergo quello sciamannato?" domando a Laura.
"Mah, sembra verso le dieci e mezza..."
Bene, tutto si spiega. Noi eravamo al parcheggio alle nove, lui è arrivato in albergo alle dieci e mezza... Questo vuol dire che si è goduto un'ora e mezza di birra prima di tornare da quella rompiballe di sua moglie. Il che indubbiamente ha giovato al loro rapporto di coppia ma ha rischiato di farmi passare dei brutti quarti d'ora al comando dei carabinieri di Cogne, a spiegare il perché e il percome un tizio che stava con me era scomparso per un'ora e mezza senza lasciare traccia.

Giuro che il prossimo workshop lo organizzo nel centro di Milano, riservato a partecipanti maschi. Senza sandali. Senza mogli o fidanzate. Anzi, meglio se seminaristi. Se qualcuno si presenta con la moglie/fidanzata lo caccio di brutto. E per quanto riguarda le giovani donne sole, beh, si tengano alla larga, ché qui è roba per soli uomini. E se qualcuno osa dire che sono maschilista, allora venga lui al posto mio, eccheccavolo!

Michele Vacchiano © 7/2001
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