VORREI AVERLA FATTA IO
Le foto di Nicola Spadafranca
Carlo Riggi, aprile 2009

"Vorrei averla fatta io"
È un apprezzamento usuale nei confronti di una fotografia, rende merito al valore dell'opera e gratifica l'autore con un'ammissione di esplicita invidia per la sua abilità o la sua fortuna. Credo che si tratti di una locuzione piuttosto specifica dell'ambito fotografico. Difficilmente capita di sentir commentare un dipinto con l'espressione "vorrei averlo fatto io". Come tutte le peculiarità, può aiutarci a comprendere qualcosa del contesto in cui è adottata.

Sembra che la fotografia evochi, come corollario alla fruizione, il desiderio di sostituirsi all’autore. La specificità del mezzo, la sua “facilità” tecnica, stuzzica un immediato spirito di emulazione che sostituisce in parte l’ammirazione per l’opera. La fotografia è considerata uno strumento alla portata di tutti, apparentemente esente dal prerequisito di studi e applicazione quotidiana. A scattare una foto decente è capace chiunque, mentre ottenere anche una sola nota pulita da un violino richiede lunghi e faticosi esercizi preliminari. A noi che la pratichiamo con passione non dispiace questo carattere “democratico” della fotografia, pur consapevoli che, in realtà, ottenere ottimi risultati presuppone altrettanto studio e applicazione che in qualunque altra disciplina.

“Vorrei averla fatta io” esprime un sentimento alternativo a “vorrei possederla”. Sono convinto che il vero successo di un’immagine, al di là degli elogi, sia decretato dalla disponibilità del fruitore a comperarla. Ebbene, pare che la fotografia stimoli poco l’istinto di appropriazione. Di fronte all’immagine capolavoro il fotoamatore pensa subito a come, nella stessa situazione, anch’egli avrebbe potuto realizzare uno scatto simile. Difficilmente si lascia rapire dall’incanto e dal desiderio di fare proprio l’oggetto. Sarà per questo che il mercato della fotografia è così asfittico? Il rapporto tra fotografi e collezionisti di foto è sbilanciatissimo in favore dei primi. Ogni fotoamatore è quasi sempre anche un fotografo, al contrario del musicofilo che non è sempre un musicista o di altri cultori d’arte che raramente sono a loro volta artisti.

Il fotoamatore ambisce a riprodurre in proprio, catturato dall’eccitazione di poter realizzare una determinata immagine più che dall’emozione che essa gli suscita. E forse è per questo che nel nostro ambiente prevale una certa ripetitività stilistica e una diffusa rinuncia a imporre un proprio stile personale. Stanchi stilemi si ripropongono uguali a se stessi nella sterminata produzione amatoriale, meri compiacimenti per copie sufficientemente conformi agli originali.

Avviene molto nel reportage, dove la tecnica può apparire ancor più elementare. Meno con le foto di moda o la ritrattistica sofisticata, dove scenari, ambientazioni e soggetti inarrivabili inducono a soffermarsi un po’ più sul fascino dell’immagine che sulla sua riproducibilità. Sembra dunque che lo “straordinario”, almeno quello, riesca a suscitare l’incanto del fruitore.

Per la verità il fotografo, come qualunque altro artista, dovrebbe vedere cose che gli altri non vedono, spinto da una sensibilità visionaria che lo porta ad essere dove gli altri non arrivano e a cogliere frammenti di normalità in forme originali e uniche. Ma quante fotografie riescono a mostrare l’ordinario in modo straordinario?

Le foto di reportage di Nicola Spadafranca a mio avviso ci riescono. Personaggi e ambientazioni non hanno nulla di esotico, anzi, fanno parte di un presente assai prossimo, appena dietro l’angolo. Le immagini di Nicola, senza effetti speciali, squarciano una cortina di indifferenza e cecità, mandano in risonanza corde emotive profonde e impongono una silenziosa contemplazione, consentendoci l’accesso a una dimensione di densa umanità. Un’esperienza di contaminazione ricchissima ma non scontata né comoda, in cui il fatto tecnico resta del tutto in secondo piano. Anche con queste foto, alla fine, cediamo all’istinto del “vorrei averle fatte io”, ma intanto siamo grati a Nicola di averla fatta lui questa esperienza e di averci permesso di entrare con le sue foto in un’area resa interdetta da una sorta di rimozione collettiva.

Carlo Riggi © 04/2009
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“On the road”
Le fotografie che Carlo Riggi ha scelto appartengono ad un corpus fotografico più ampio, esposto presso la Biblioteca comunale del Palazzo della Cultura della Città di Manfredonia e presso il Teatro degli Atti di Rimini.

Le foto, che ho esposto in quelle occasioni, ritraggono uomini, donne, luoghi. Le donne, gli uomini provengono dalla Romania, dalla Bulgaria e dall’Africa. Gli africani che ho incontrato, sono originari del Burkina Faso, Costa D’Avorio, Darfur, Eritrea, Gambia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Sudan, Senegal, Uganda. Alcuni sono regolari, molti altri no.
Tutte le fotografie sono state realizzate all’interno del territorio compreso tra le città di Foggia, San Severo, Rignano Garganico, Manfredonia e la sua frazione di Borgo Mezzanone. Un lungo lavoro di documentazione realizzato dal mese di giugno del 2007 al mese di settembre del 2008, non ancora giunto al termine. Ho scattato 100 rulli di pellicola, 3600 scatti, ho percorso più di 7.000 Km.

Nel mio territorio dal mese di aprile fino a quello di ottobre inoltrato è necessaria la presenza di una gran quantità di manodopera per la cura dei campi e la raccolta dell’asparago, del pomodoro, dell’uva e del carciofo. Il culmine di tale necessità si concentra nei mesi di luglio e agosto. Dopo la campagna del pomodoro e dell’uva, molta gente si sposta verso la Calabria (Rossano) per la raccolta dei mandarini e delle arance. Questi uomini sono i nomadi della modernità.

Ho sempre desiderato viaggiare. In questi ultimi anni mi risulta sempre più difficile. Riesco ad attenuare questo desiderio, leggendo. Leggendo ho appreso che per un viaggiatore è necessario perdersi, anzi sapersi perdere in realtà è un’arte. Lo scrittore Georges Perec, in quest’ottica, ha voluto riscoprire Parigi, percorrendo, in ordine alfabetico, tutte le strade il cui nome inizia con la stessa lettera.
Così, riflettendo su come avessi potuto organizzarmi al meglio per viaggiare, sono arrivato alla conclusione per cui, se non potevo raggiungere mete infinitamente lontane, non mi rimaneva che recarmi verso mete infinitamente vicine.

Mi sono domandato spesso cosa può voler dire oggi territorio, appartenere ad un territorio. Mi sono ritrovato a riflettere sul senso di termini come coesione (sociale), inclusione (sociale) e quale significato potessero oggi assumere. Ho deciso così di “viaggiare” in luoghi a me vicini, ma poco conosciuti, e di farlo con lo stesso spirito che il raggiungere e il percorrere mete lontanissime comporta. Ho portato con me una fotocamera, in verità più di una, un taccuino e un libro. Pensavo di fotografare il mio territorio per analizzarne il paesaggio e la sua evoluzione. Percepivo una presenza sempre maggiore di “nuovi” abitanti. Il paesaggio è il territorio dell’uomo, è il prodotto del suo lavoro e del suo passaggio. Un’analisi del paesaggio non può prescindere dal racconto della vita quotidiana di coloro che vi abitano.

“On the road” l’incontro con la gente, gente molto diversa da noi, proveniente da paesi molto differenti tra loro. Ho cercato di partecipare ai loro discorsi, altre volte ho provato ad immaginare il senso dei loro silenzi. A volte mi hanno raccontato la loro storia, altre volte ho potuto solo intuirla. Non dimenticherò mai quella gente.
Ho creduto di rappresentare tutto ciò fotografando i loro volti. Il volto è la nostra parte più indifesa, la più esposta, ma anche la più rivelatrice.
Forse è superfluo sottolineare che alla fine di questo mio viaggio, nella mia terra, questi volti mi hanno cambiato profondamente.

Nicola Spadafranca