LE CREPE DELLA MEMORIA
Il Grande Cretto di Alberto Burri
Carlo Riggi, febbraio 2009

L’eterno presente è un’immane dannazione, attualizza senza tregua il trauma, non lascia vie di fuga. La fotografia è considerata l’arte della memoria, lo strumento con cui si congela il tempo. Ma se essa realizzasse solo di perpetuare il tempo presente sarebbe un’arte ben meschina e odiosa. Essa in realtà è un ausilio della memoria, capace di amplificarne la naturale propensione a spaziare nel passato e nel futuro. Solo una qualche memoria del futuro può condurre con millimetrica precisione l’autore inquieto verso i resti della catastrofe, rappresentazione esatta del proprio attuale stato d’animo. E scoprire così che il disastro avvertito come imminente nella realtà è già avvenuto, ancorché, sublimato dalla pietà artistica, sempre in continuo divenire.

Rievocare la memoria della tragedia significa attraversarne le crepe, i vuoti, la muta sensorialità. Quando un evento interviene ad infrangere la continuità dell’esistenza, di un individuo o di una intera popolazione, quel che resta sono fratture di senso, bacini di impensabilità. L’arte informale ha rappresentato la catastrofe della guerra affidandosi alla materia, plasmata attraverso la doppia logica della razionalità e del caso. Alberto Burri ha lasciato al bianco cemento di perimetrare e contenere lo sconquasso del terremoto.

La fotografia è fatta di intermittenze, la vescicola dell’otturatore mette in contatto col reale e protegge dai suoi eccessi. Fotografare è sintonizzarsi con le crepe della memoria, introdurvisi alla ricerca di nuove possibilità di senso. Crepe di crepe, ad espandere la geniale intuizione di Burri, il quale si rifiutò di aggiungersi all’orgia artistica della Gibellina nuova e si applicò alle increspature del paese distrutto, lasciandoci una testimonianza unica di un dolore indicibile che solo nel non senso, nella frammentazione del pensiero o nella follia, può trovare una forma di consolazione.
Scrive la psicoterapeuta Silvia Grasso: “Il Grande Cretto, opera di potenza straordinaria, è la monumentale raffigurazione di un lutto al momento impraticabile per la portata delle conseguenze, il cemento nasconde e allude alla frammentazione sottostante, tenuta insieme dalla rete metallica che, grazie alla rigidità, garantisce una coesione tra i pezzi che altrimenti resterebbero sparsi”.

In Sicilia può ancora succedere di imbattersi in esperienze di tale intensità e poter fruire di un’opera d’arte in maniera così diretta, liberi da incolonnamenti e file, lontano dagli itinerari del turismo vociante. Tra le stradine del Cretto, se ti immergi sacralmente nel silenzio, puoi ancora sentire i rumori del paese, gli odori, le urla gioiose dei bimbi. Frammenti di memoria, crepe della ragione, utili a riparare gli effetti devastanti di quel terremoto che a volte è vivere. La fotografia può supportare questo lavoro di ricostruzione, quando sia utilizzata come strumento discreto, dal quale non si pretenda di vedere tutto ma si impari a chiudere gli occhi e fermarsi ad ascoltare gli echi intermittenti delle emozioni sepolte sotto i calcinacci della propria storia.

Carlo Riggi © 02/2009
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Il 15 gennaio 1968 un grande sisma colpì la valle del Belice distruggendo molti paesi, provocando 370 morti e lasciando circa centomila persone senza casa. Nuovi paesi furono ricostruiti a poca distanza da quelli distrutti e, nel desiderio di riparare all’enorme ferita inferta dal cataclisma, furono chiamati i maggiori artisti dell’epoca a firmare opere che, spesso, sono rimaste autentiche cattedrali nel deserto. Alberto Burri (Città di Castello 1915 - Nizza 1995) non aderì a questo tentativo vagamente maniacale di “annullare” la catastrofe, ma scelse di dedicarsi alla città vecchia di Gibellina, realizzando lì il “Grande Cretto”, un’opera che divenne il monumento funebre della città, testimonianza viva della tragedia.

"Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento. Ecco fatto!” (Alberto Burri, 1995)