GILBERT GARCIN. LE BIZZARRE AVVENTURE DEL "SIGNOR NESSUNO"
Serena Effe, settembre 2007

Un mondo immaginario, un personaggio privato della sua identità, reminiscenze esistenzialiste e una buona dose di ironica inventiva: è la ricetta della tragicomica "comédie humaine" di Gilbert Garcin. Una selezione delle sue immagini, dal titolo "Allegorie", è accolta presso la Galleria Carla Sozzani di Milano fino al 28 ottobre 2007.

La prima domanda che mi si è presentata alla mente una volta iniziato ad immaginare quest'articolo, è stata: sarà il caso di chiamare Gilbert Garcin "fotografo"? E' lecito presentare in questi termini un uomo che nella vita ha fatto tutt'altro, e che solo dopo il pensionamento ha iniziato a fotografare, raggiungendo contro ogni plausibile aspettativa la notorietà internazionale? Perché così è stato per Garcin, marsigliese classe 1929: una laurea in Economia, la direzione di una società di importazione di lampadari, moglie e figli come da copione; una vita riservata e tranquilla, quindi, illuminata d'un tratto dall'impellente bisogno di materializzare la propria visione ed esperienza di vita attraverso la creazione di "opere" condivisibili dal resto del consorzio umano, scegliendo, tra i tanti a disposizione, il mezzo fotografico.
Fotografo, dunque? Artista? Creativo? Semplice bricoleur? Alla fine, mi son detta, non ha la benché minima importanza: ciò che conta è che Garcin - e chissà quanti come lui - sia la prova lampante che la spinta creativa, quando arriva, non guarda in faccia età, curricula, milieux sociali o culturali; e il bello è che, nel caso in questione, e nonostante ci si trovi in ambito fotografico, creatività e voglia di comunicare, quando sono sincere e spassionate, sanno ancora farsi beffe di megapixel, sigle criptiche e avveniristici dispositivi. "Artisti" non si nasce, e neanche fotografi: quel che è indubbio è che non saranno certo le specifiche tecniche di una fotocamera a farcelo diventare. E la bizzarra storia di questo "Signor Nessuno" e del suo alter ego fotografico ci invitano a ribadirlo una volta di più.

"Galeotto fu il workshop e chi lo tenne", è proprio il caso di dirlo. A circa tre anni dal pensionamento, infatti, Garcin - che già da un po' era alla ricerca di un linguaggio fotografico a lui congeniale - prese parte ad un workshop tenuto nella cittadina di Arles dal fotografo francese Arnaud Claas, la cui produzione è accostabile alla poetica surrealista. Rimasto entusiasta delle potenzialità espressive offerte dal fotomontaggio e dall'assemblage fotografico, riconobbe in queste due tecniche ciò di cui andava cercando. In fotografia, c'è chi ragiona della vita e della morte ritraendo un fiore, un paesaggio, le linee di un'architettura, un'ombra, un volto; Garcin decise invece di rinunciare alla realtà esteriore per dar vita ad un mondo fittizio ed irreale, abitato da un unico personaggio, un "Signor Nessuno", senza nome e senza storia, in cui ogni osservatore potesse agevolmente riconoscersi: di età avanzata, abbigliato in maniera assolutamente neutra, privo di qualsiasi particolare che possa attirare l'attenzione, dall'atteggiamento dimesso, lievemente incurvato su se stesso, solitario e un po' assente, come fosse perennemente perso nei suoi pensieri e nelle sue melanconiche contemplazioni. Lo vediamo quasi sempre di spalle, le mani incrociate dietro la schiena, o intento in qualche improbabile e surreale occupazione: un eroe tragicomico a cui è affidato il compito di impersonare metafore, allegorie e paradossi circa quel "teatro dell'assurdo" che è l'esistenza umana. Come un moderno Ulisse, privatosi di ogni identità non per dar prova d'ingegno e di coraggio contro il ciclope Polifemo, ma per confrontarsi con complessi, inquietudini, insicurezze, aneliti, intimi terrori e ogni altra vertigine causata all'Uomo dall'ineludibile - e a suo modo comica - insensatezza della sua condizione.

Sono centinaia le immagini che compongono questa sorta di "biografia immaginaria" (ne trovate oltre trecento nella galleria del sito www.gilbert-garcin.com), create da Garcin con un procedimento che riconduce la fotografia alla sua condizione "artigianale", eminentemente manuale e, se si vuole, anche giocosa, in grado di "arrangiarsi" e di dar vita alle più disparate fantasie con l'utilizzo creativo di pochi mezzi essenziali, senza la necessaria presenza di un computer e annesso programma di fotoritocco (un concetto, questo, che Nadir cerca da sempre di veicolare: ne è un esempio la presenza della meritatamente celebre rubrica "L'Antro di Merlino" di Rino Giardiello. Demonizzare digitale, Photoshop e compagnia bella sarebbe uno sciocco anacronismo; ma ugualmente penalizzante è il credere che questi siano gli unici mezzi rimasti a disposizione per esprimersi fotograficamente).


Mediante l'allestimento di mini-scenografie, l'immagine fotografica - debitamente ritagliata - del nostro Uomo Qualunque viene di volta in volta ambientata contro sfondi realizzati con l'ausilio di materiali "di fortuna" quali sabbia, fili, sassi, banali oggetti quotidiani: modelli in scala ridotta di un mondo senza tempo né spazio riconoscibili, il più delle volte desolato e dall'atmosfera "lunare", rarefatto e spoglio come un sogno di cui il risveglio abbia fatto dimenticare i particolari inessenziali. Le foto, tutte in bianco e nero e rigorosamente composte, sono caratterizzate da un'efficacissima capacità di sintesi prossima al minimalismo, e frequenti sono gli effetti di estremo grafismo, specialmente in quelle numerose immagini in cui ricorrono matasse di fili ingarbugliati, ingenua ma efficace metafora dell'inestricabile mistero della vita, di fronte al quale non siamo altro che minuscoli e goffi esserini intenti a cercare di conquistare il fantomatico bandolo (candidamente persuasi, nonostante tutto, della sua esistenza); i titoli svolgono un ruolo fondamentale nell'interpretazione, aiutandoci a venire a capo dei raffinati enigmi e "rebus visivi" che Garcin confeziona col suo visionario "taglia e cuci" fotografico.

Ecco allora che ne Lo specchio del cielo, per esempio, l'anelito frustrato verso un'improbabile libertà si concretizza in un'immagine che lo vede passeggiare con un lembo di cielo sotto al braccio; ne La vita, visione d'insieme l'angoscia del tempo che sfugge è resa attraverso la riduzione dell'intera esistenza di un uomo ad un metodico, ragionieristico cancellare con un perentorio tratto nero gli anni passati su di una asettica superficie bianca; frequente anche il tema del "limite", della paura o dell'impossibilità di valicarlo, come in Non andremo oltre, in cui una semplice e, volendo, facilmente scavalcabile staccionata nera, stagliata su un terreno immacolato, simboleggia la frustrante limitatezza dell'essere umano a fronte dell'infinito e dell'ignoto, qui rappresentato da un'insondabile oscurità che occupa i due terzi del fotogramma; ne La ruota lo vediamo arrancare entro gli ingranaggi di una grossa ruota arrugginita, come un criceto in giacca e cravatta destinato a non arrivare mai in nessun luogo; ne Il Mulino dell'Oblio, invece, eccolo trascinare in cerchio una sorta di grossa cimosa che, implacabilmente, cancella ogni traccia dei suo passi. E le "problematiche esistenziali" affrontate sono innumerevoli altre, tutte rese con fantasia ed arguzia: dall'incomunicabilità e l'isolamento dell'individuo al mistero della morte, dalla caparbia incoscienza di ogni speranza o ideale al difficile rapporto con gli altri e finanche con la nostra stessa identità, dall'insensatezza di ogni azione umana al disorientamento e al senso di inadeguatezza che ci guidano nel nostro più o meno impacciato brancolare quotidiano. Pessimismo? Assolutamente no. Pungente ironia, vista acuta e disincantato realismo, piuttosto.


I riferimenti "colti" e le analogie culturali, che suggeriscono ulteriori e stimolanti livelli di lettura della sua opera, sono spesso lampanti e perlopiù ascrivibili al contesto francese.
Immediato è l'accostamento con le oniriche visioni del Surrealismo: non quello allucinato e contorto di un Dalì, quanto quello, lucidissimo - e per questo ancor più spiazzante -, di un Magritte. E non è raro che Garcin crei dei veri e propri d'après (reinterpretazioni, più o meno fedeli all'originale, di celebri opere d'arte), attingendo alla storia dell'arte nella sua totalità, chiaramente intesa in quanto inesauribile fonte di utopiche, dolcissime consolazioni: dal romanticismo sublime di Caspar-David Friedrich, alla levità di Paul Klee, fino all'espressionismo astratto di Franz Kline; frequente, inoltre, il ricorso all'artificio compositivo del "quadro nel quadro" (o della "foto nella foto"), attraverso cui Garcin enfatizza l'immaginosa illusorietà delle sue messinscena.
In ambito cinematografico, è stata individuata un'affinità col regista Jacques Tati, per la leggerezza svagata e lo humor venato di malinconica poesia con cui i due riescono ad affrontare le tematiche più "scomode" per mezzo di goffi e grotteschi anti-eroi (nel caso di Tati il compito è affidato allo spaesato Monsieur Hulot).
I riferimenti letterari, poi, si sprecano, e ancora una volta sono i titoli che ci agevolano nell'orientamento.
Garcin, per dirne una, adotta toni da satira - ma della più delicata e sottile - grazie al rimando palese al Candide del filosofo illuminista Voltaire nella foto Coltivare il proprio giardino, in cui il grande fiore sbocciato su quell'arido e desolato terreno ricorda tanto il Baobab del Piccolo Principe.
Altrove, invece, pesca a piene mani nell'Esistenzialismo di un Camus o di un Sartre: la foto intitolata L'Inferno sono gli altri, per dirne una, prende in prestito una famosa frase contenuta nel dramma teatrale A porte chiuse di Jean-Paul Sartre per parlare delle difficoltà relazionali che ci affliggono e del timore paralizzante del giudizio altrui. O, ancora: "Bisogna immaginare Sisifo felice" è, oltre che il titolo di una foto di Garcin, soprattutto l'inattesa esortazione che conclude il saggio Il mito di Sisifo di Albert Camus (a mio avviso un capolavoro; quantomeno un buon pendant alla scoperta delle immagini di Garcin).
Il personaggio mitologico di Sisifo si presta assai bene ad essere adottato come simbolo dell'insensato paradosso dell'esistenza umana a causa del suo celebre supplizio, che consisteva nel dover spingere in eterno su un monte un pesante macigno, che, una volta raggiunta la vetta, rotolava di nuovo a valle, rendendo vana ogni sua fatica.

Nell'impossibilità di trovare un senso ad una così impietosa e inconcludente condanna, non rimane che una cosa da fare: immaginarlo nonostante tutto felice, pur nella sua eterna pena. Al posto di Sisifo, nell'immagine di Garcin troviamo il nostro Signor Nessuno avvolto nel suo pesante cappotto nero, probabilmente un po' ansimante e bofonchiante per il fastidio della salita, e che, chissà perché, ci ispira un'istintiva simpatia: inutile dire che l'intento è quello di rappresentarci, uno per uno, con o senza il nostro "consenso informato".

E' così che Gilbert Garcin, dall'alto dei suoi quasi ottant'anni, sorride di sé e degli uomini nel momento stesso in cui, con impietose arguzia ed ironia, ne mette in scena le più misere debolezze; che, anche se potenzialmente drammatiche, costituiscono pur sempre l'essenza - croce e delizia - del nostro essere umani.

Serena Effe © 09/2007
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