VISITA AL MUSEO NAZIONALE ALINARI DELLA FOTOGRAFIA
Serena Effe, novembre 2006

Un 'viaggio interstellare' attraverso 160 anni di storia della fotografia. Accade a Firenze, nel neonato MNAF.

La loggia dell'Ospedale di San Paolo - sede del Museo - in piazza Santa Maria Novella a Firenze, in una foto dei Fratelli Alinari del 1887 (ca. Archivi Alinari, Firenze).

E' il 7 gennaio 1839 quando Daguerre - tramite il celebre discorso dello scienziato François Arago all'Accademia delle Scienze di Parigi - vede annunciata al mondo la 'sua' invenzione (le virgolette sono d'obbligo, visto che gran parte del merito fu di Nicéphore Niépce, che, anziano e a corto di liquidi, cedette alle pressioni di Daguerre, mettendocisi in società e morendo poco dopo): in un modo o nell'altro, comunque sia, ciò che conta è che la Fotografia era ufficialmente nata.

Tempio di Saturno al Foro Romano (Roma) in un dagherrotipo del 1845 ca. di autore non identificato.

Felix (o Felice) Beato, Donna giapponese che usa cosmetici, 1863 ca., stampa all'albumina colorata a mano (©MSFFA, fondo F. Beato, collezione Malandrini, inv. MFC A 4626-21 )

Tredici anni dopo, a Firenze, il giovane Leopoldo Alinari apre un piccolo laboratorio in cui commercializzare la sua produzione fotografica, coinvolgendo poi anche i due fratelli e dando vita all'azienda Fratelli Alinari. Ai primi del Novecento, grazie ad un progressivo e scrupoloso incremento delle campagne fotografiche, mirate a documentare capillarmente tutto il territorio italiano, l'atelier dei Fratelli Alinari si configura come l'azienda leader in Italia e tra le più importanti a livello internazionale.

Arrivando ai giorni nostri, l'archivio (il più antico al mondo) dell'omonima Fondazione conta un patrimonio di quasi 3 milioni di negativi b/n e colore sui più disparati supporti, nonchè circa 900 mila positivi in tiratura d'epoca; il tutto perlopiù contenuto in 6 mila album originali d'epoca, tra le cui pesanti pagine fanno bella mostra di sé più di 160 anni di storia della Fotografia.

Una premessa niente male, non c'è che dire. Ma c'è dell'altro di cui esser contenti: è per meglio tener fede ai suoi originari propositi di tutela, promozione e valorizzazione di tutto ciò che è riferito alla Fotografia e alla sua storia, infatti, che la Fondazione ha da poco regalato all'Italia, finalmente, il suo primo Museo Nazionale della Fotografia.

Il Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF per gli amici) ha aperto i battenti il 28 ottobre scorso, suggestivamente immerso in una location d'eccezione come il duecentesco Complesso delle Leopoldine, affacciato su piazza Santa Maria Novella e sulla bella facciata albertiana dell'omonima chiesa.

Grandi nomi nei comitati scientifico e d'onore: François Cheval (direttore del Musée Niépce di Chalon-sur-Saône), Luc de Monterosso (direttore della Maison Européenne de la Photographie), Peter Galassi (curatore del Dipartimento di Fotografia del MOMA di New York), e poi ancora Italo Zannier, Anne Cartier-Bresson, Charles-Henri Favrod, Grant Romer dalla Eastman House... giusto per dirne alcuni.

800 metri quadri divisi in due spazi distinti: uno per il museo vero e proprio, l'altro dedicato alle esposizioni temporanee (per le quali è già pronto un ricco calendario).

Ma ora, dopo questa doverosa quanto smagliante scheda tecnica, iniziamo la visita, inoltrandoci nella leggera penombra di questi neonati spazi (il cui allestimento scenografico, per la cronaca, è opera del regista Giuseppe Tornatore; la poetica metafora a cui si è ispirato è quella del "viaggio interstellare": un'immersione nel buio di una sorta di "notte dei tempi" dal quale, magicamente, emergono luminose immagini di un passato da riscoprire, come evocativi barlumi di memoria).
Fino a quando non saranno terminati i lavori di recupero del complesso delle Leopoldine (che in futuro ospiterà, oltre al MNAF, anche il Museo del Novecento, dedicato all'arte italiana del secolo appena passato), il primo ambiente che ci si trova a visitare è quello dedicato alle mostre temporanee: ma ne parleremo meglio più avanti.

Spostiamoci invece subito all'interno della collezione permanente: gli spazi, a dir la verità, sono a tratti un po' angusti, e il percorso non è intuitivo, frammentato com'è lungo gli stretti corridoi. Ma ogni altra eventuale lamentela viene messa a tacere, non appena ci si trovi di fronte alla brillantezza specchiata dei primi dagherrotipi, che ci introducono con la loro stupefacente dovizia di particolari alla prima tappa - delle sette previste a scandire il percorso -, dedicata alle Origini della fotografia (1839-1860): una breve galleria di nitidissimi sguardi fissi e di pose 'ingessate' che fanno eco alle immagini di architetture monumentali. Il ritratto e la foto di architettura (ancora prettamente documentaria, s'intende) furono infatti i generi prediletti (per necessità più che per gusto) da questi pionieri della fotografia; i diversi minuti necessari per impressionare le lastre argentate e sensibilizzate con vapori di iodio dei dagherrotipi imponevano ai soggetti ritratti un'immobilità che gli succhiava via la vita, salvo poi tentare di restituirgliene un po' con ritocchi di colore successivi: non di rado, quindi, ecco apparire, su queste ancora pittoriche pose, gote rosee, pizzi pastello, vestiti color del cielo. Alcune meravigliose eccezioni: l'intimità scomposta di una bambina addormentata, ritratta da un dagherrotipista non identificato intorno al 1850, e la posa ieratica di una madre contrapposta al 'fantasma' del bimbo che tiene sulle ginocchia, che con la sua vivacità si è sottratto all'eterno.

Ma il dagherrotipo, per quanto 'portentoso', era innegabilmente scomodo: le lastre erano pesanti da trasportare, il processo di sensibilizzazione complicato, e come se non bastasse producevano immagini uniche (positive) e non riproducibili se non con un'ulteriore sessione di posa. Fu soprattutto per questi motivi che questo procedimento fu ben presto soppiantato da quello del calotipo (negativo su carta), riproducibile e più agevolmente trasportabile. Numerosi e appaganti gli esempi esposti (stampe su carta salata e albuminata), in cui alla 'fredda' e metallica lucentezza argentata del dagherrotipo si sostituisce il giallastro 'calore' della porosità e della grana evidente della carta, che sfalda contorni e significati, regalando immagini lievi, delicate e ancor più 'romantiche': soprattutto vedute e architetture, anche qui, dato che ancora la spinta fondamentale è quella che mira a testare l'efficacia tecnica del mezzo, piuttosto che le sue potenzialità estetico-creative.

Ma col passare del tempo una certa libertà compositiva inizia a farsi strada, timidamente, specie nei ritratti, aprendo uno spiraglio che guarda già ad una nuova, più autonoma realtà: è il caso per esempio del ritratto a Giuseppe Palizzi, scattato da Nadar nel 1857-59, che non per niente inaugura la sezione L'età d'oro della fotografia (1860-1920), curata da Italo Zannier.

E', questa, l'età delle rivoluzionarie innovazioni tecniche, dei negativi su lastre di vetro sensibilizzate al collodio o alla gelatina di bromuro d'argento (via la grana, si riconquista la nitidezza perduta, e, grazie alla trasparenza e alla maggiore sensibilità, i tempi di posa si riducono sensibilmente), degli esperimenti di fotodinamica di Muybridge, nonché della crescente 'massificazione' della fotografia, grazie anche ad invenzioni come l'apparecchio a obiettivi multipli (ad opera di Disdéri), che permise di impressionare un'unica lastra con più fotogrammi in una volta sola, dando vita al fondamentale fenomeno della carte-de-visite.

André-Adolphe-Eugène Disdéri, carte de visite del  Marchese de Salar, 1860 ca., stampa all'albumina (©MSFFA)

Eadweard Muybridge, tavola 59 dal libro Animal Locomotion, 1887, fotocollotipia (©MSFFA, collezione Palazzoli, inv. PDC A 4695-59)

Vittorio Sella, Himalaya. Siniolchun, 1909, stampa alla gelatina bromuro d'argento (©MSFFA, fondo Sella, inv. FVQ 17473).

E' l'età in cui i nuovi atelier spuntano fuori come funghi, e accanto alle vedute-souvenir di città e ai ritratti si fa spazio la vastità della Natura e dell'esotico: la fotografia conquista nuovi territori, arriva a piantare le sue bandierine ai piedi delle piramidi egiziane e nell'intimità di case giapponesi con Felix Beato, sulle vette innevate con Sella e i fratelli Bisson, sulle pareti scoscese dei faraglioni di Capri con lo Stabilimento Giacomo Brogi (una stupenda stampa al carbone, quest'ultima).

E' in questa sezione che matura quello scarto fondamentale che ci fa passare dalle esclamazioni di stupore rivolte ai progressi tecnici ad altre - se si vuole più profonde e appaganti - che nascono dall'emozione della creatività senza più vincoli, della libertà e varietà compositive.

Wanda Wulz, Io + gatto, sovrimpressione del 1932, stampa alla gelatina bromuro d'argento (©MSFFA - archivio Wulz, collezione Zannier, Firenze).

La fotografia, ora che cammina con gambe più salde sull'arduo terreno della tecnica, è finalmente libera di sperimentare le prime capriole estetiche: staccandosi da terra, lentamente impara a muoversi con la grazia dell'Arte; cessa di fare il verso alla Pittura, inventandosi un portamento che sia solo suo.

Entrati nel Novecento (e nella terza sezione, L'avvento delle avanguardie 1920-2000), a fare gli onori di casa è una fotografia 'cresciuta', autonoma e sicura di sé, che ci guida senza esitazioni attraverso volti e nomi noti, orgogliosa di questa libertà conquistata: Alfred Stieglitz, Wanda Wulz, Man Ray, Cartier-Bresson, Robert Capa, Margaret Bourke-White, Ansel Adams, Dorothea Lange, Diane Arbus, Robert Frank, Werner Bischof, William Klein, Herbert List, René Burri, Salgado, Brassaï, e i nostri Roiter, Berengo Gardin, Giacomelli, Fontana, Basilico... una foto per uno, una carrellata di immagini che sono ormai icone della storia della fotografia moderna.

G. Crupi, Isola a Capo S. Andrea. Taormina, 1890 ca., stampa all'albumina all'anilina (esposta nell'ambito della mostra temporanea Vu d'Italie ©MSFFA, fondo Crupi).

Una curiosità. Lungo il percorso si incontrano strane riproduzioni tridimensionali di alcune foto (20 in tutto), assemblate con l'ausilio dei più disparati materiali quali vetro, sabbia, stoppa, metallo, cotone, corteccia d'albero, carta velina...sono le 'foto per ciechi'. Realizzate dalla Stamperia Braille della Regione Toscana, fanno parte di un 'Percorso tattile' realizzato per permettere la fruizione del museo anche ad ipo- e non vedenti. Per tutti gli altri, invece, può rappresentare un modo alternativo di 'sentire' le immagini, attraverso una originale esperienza sensoriale che metta alla prova un senso 'addormentato' quanto può esserlo il tatto.

Dopo questa galleria da capogiro, spostiamoci in una buia e scenografica stanzetta tappezzata di immagini retroilluminate. E' la sezione Immagini in trasparenza, dedicata alla magia delle matrici e alla scoperta di supporti e tecniche di sensibilizzazione di ogni sorta: dai negativi calotipi su carta a quelli su vetro al collodio o alla gelatina (bellissimi!), per arrivare alla pellicola, con un'incursione nelle diapositive (fantastiche quelle su vetro colorate a mano) e nelle autocromie.

Al piano superiore ci aspettano le ultime tre sezioni. Un tripudio di apparecchi d'epoca che rende conto dell'intera storia della fotografia, dai primi apparecchi per dagherrotipi fino al primo fotocellulare: una sofferenza inenarrabile per ogni appassionato, che languirà, vedendo tutto quel ben d'Iddio messo sotto vetro, torcendosi le mani che vorrebbero tanto poterci giocherellare...almeno un pochino!

Riacquistiamo un contegno, spostandoci ad ammirare la collezione di album d'epoca: veri capolavori di ogni foggia e misura!, dai piccoli cofanetti per custodire un singolo dagherrotipo, foderati di velluto rosso, agli album da tavolo istoriati di madreperla e addobbati di sete preziose, passando per veri e propri 'scrigni' (particolarmente affascinante un album le cui pagine sono decorate da romanticissime composizioni di fiori secchi, o i minuscoli album-souvenir di città).
Concludiamo la visita con la sezione Intorno alla fotografia, dove è esposta una selezione di materiali 'collaterali' quali manifesti pubblicitari, carte intestate dei più importanti stabilimenti fotografici, confezioni di negativi su lastra e ogni altro gadget.

A sinistra, la bella stampa al carbone dello Stabilimento Giacomo Brogi (1900 ca. ©MSFFA, inv. FVQ 198181 ). A destra, la riproduzione tridimensionale facente parte del 'Percorso tattile' per non vedenti: la scabrosità della pietra dei faraglioni è resa con corteccia d'albero; ad essa è contrapposta la levigatezza del mare, reso con del metallo.

Non contenta, ho voluto 'testare' le audioguide. E' un servizio che di solito evito accuratamente, perché non sopporto il loro imporre un ritmo alla visita. Ma in un museo del genere, mi sembrava potessero avere un loro perché, se non altro per venire incontro a quei visitatori che non hanno dimestichezza con termini specifici quali 'dagherrotipo', 'calotipo', 'albumine' e via dicendo, rendendo più consapevole - e quindi più godibile - la visita. Niente da fare: anche stavolta le audioguide mi hanno delusa. Un costo in più - per quanto irrisorio - del quale a mio avviso si può fare tranquillamente a meno. Mi sento invece di consigliarvi un'altra eventuale spesa, quella di 29 euro per il catalogo-guida al Museo: un bel 'mattoncino' di 309 pagine che, oltre a racchiudere le immagini dell'intera collezione permanente (molte delle quali commentate una per una), propone una serie di testi introduttivi alle singole sezioni, che ne fanno una sorta di sintetico, godibilissimo e ben fatto manuale di storia della fotografia, da leggere quasi come un romanzo.

Concludo, tornando sui miei passi, con l'ambiente dedicato alle mostre temporanee, che animeranno costantemente la vita del museo: uno spazio non enorme, ma che, come già constatato per la collezione permanente, sopperisce ad ogni limite con il fascino e la qualità innegabile dei materiali esposti. Qui, fino al 10 dicembre, troverete la mostra Vu d'Italie 1841-1941. I grandi Maestri della fotografia italiana nelle collezioni Alinari: un meraviglioso percorso storico-estetico attraverso i primi cento anni della fotografia. Tra le 'perle' esposte (ma lo sono tutte, ad esser pignoli), spiccano la più bella veduta di Genova che abbia mai visto, inquadrata da un idilliaco pergolato (un'albumina di Celestino Degoix del 1865), un surreale 'chiaro di luna' veneziano (albumina virata del 1875, di Carlo Naya) e una enorme Piazza San Marco che commuove, con i suoi lampioni accesi a matita (nella gelatina bromuro d'argento ritoccata dello Stabilimento Giacomo Brogi, del 1900); simpaticissime le 'scenette di genere' di Sommer e Conrad (1865), che interpretano alcuni stereotipi italiani come "il lazzarone", "la pidocchiosa", "il venditore di angurie"; da lasciare a bocca aperta, poi, la grazia pastellata delle piccole autocromie di Giorgio Roster. E potrei continuare all'infinito.
Per chi si lasciasse sfuggire questo appuntamento, anticipo la possibilità di rifarsi, nel gennaio 2007, con la mostra in programma dedicata a Walker Evans.

Detto questo: serve per caso che vi consigli caldamente una visita?

Serena Effe © 11/2006
Riproduzione Riservata

SCHEDA MUSEO
Il Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF) ha sede in Piazza Santa Maria Novella, 14a/rosso (a due passi, davvero due, dalla Stazione centrale di Firenze).

Orario: 9.30-19.30, sabato 9.30-23. Chiuso il mercoledì
Biglietto (museo+mostra temporanea): Intero 9 euro; Ridotto 7,50 euro; Convenzioni 6 euro; gratis bambini fino a 5 anni
Audioguide: Singola 4 euro; Doppia 3 euro ciascuna
Cataloghi: Guida al Museo 29 euro - Catalogo Tattile 30 euro (su ordinazione)
Info: tel. 055.216310 - mail - sito web