ALEXANDER RODČENKO

Siamo alle soglie degli anni Venti del '900. Il panorama culturale europeo è infiammato dal proliferare di "ismi" e movimenti artistici d'avanguardia d'ogni sorta, e la Russia - mentre sullo schermo della Storia scorrono a gran velocità eventi-cardine come la Grande Guerra, la Rivoluzione del '17, la fine dello zarismo, l'avvento del governo socialista bolscevico di Lenin, l'istituzione dell'URSS, l'era di Stalin... - recepisce, anche se con un po' di ritardo, ogni nuovo stimolo.
L'italianissimo Futurismo vi è già da qualche anno penetrato con l'impeto dissacrante che gli è proprio, incarnandosi nell'opera pittorica di artisti come Larionov e la Gončarova, per poi espandersi - grazie alla sintesi con la scomposizione spaziale cubista e con i colori saturi del fauvismo - nella variante astratta del Raggismo (il cui nome deriva appunto dai "raggi" che stravolgono lo spazio rappresentato).

Una volta imboccata la via dell'astrazione, la strada è spianata per il maturare del Suprematismo e delle sue ascetiche non-rappresentazioni, sintesi di forme geometriche e superfici cromatiche ridotte all'essenziale: nel 1915 Kasimir Malevič dipinge il suo celeberrimo "Quadrato nero su fondo bianco", a cui farà seguito, tre anni dopo, sull'onda di una rigorosa riflessione sulla percezione del nulla, il paradossale "Quadrato bianco su fondo bianco".

Il termine "Costruttivismo", invece, usato per la prima volta nel 1913, arriva intorno agli anni Venti ad identificare uno specifico movimento, che, rifacendosi anch'esso ad uno stile di ascendenza cubo-futurista, si caratterizza soprattutto per la perentoria negazione di ogni estetica borghese, in una prospettiva palesemente rivoluzionaria: ecco che allora l'opera d'arte si connota per la sua utilità nei confronti della causa politica, facendo sì che venga ad instaurarsi un sempre maggior legame tra arte, azione di massa, sistema del lavoro, tecnica ed industria. Ed è a questo punto della storia che, finalmente, incontriamo Alexander Rodčenko (o Rodchenko che scriver si voglia), non ancora fotografo bensì pittore, formatosi all'ombra di Malevič e maggior esponente del Costruttivismo in compagnia di El Lissitskij, Stepanova, Tatlin. Dal suo sodalizio - intellettuale e sentimentale insieme - con la Stepanova, nascerà nel 1921 un ulteriore movimento (e prometto che è l'ultimo!): il Produttivismo; in opposizione all'eccessiva distanza dalla realtà della vita quotidiana che, nonostante gli intenti, caratterizzava molte delle creazioni costruttiviste, il Produttivismo nacque dalla volontà di radicalizzare ulteriormente l'esigenza di utilità e produttività della pratica artistica («Abbasso l'arte, viva la tecnica!», recita il loro proclama rivoluzionario), agganciandola saldamente alla realtà sociale e, per osmosi, alla propaganda politica. Ed è non a caso a partire da questa data che Rodčenko comincerà a prendere le distanze dalla distaccata purezza della pittura, preferendole una sempre maggiore contaminazione con la vita quotidiana che lo condurrà a dedicarsi quasi esclusivamente alla grafica, ai manifesti (ne realizzerà uno anche per il film La corazzata Potëmkin di Ejženštein, del 1925, in cui l'ideale sovietico è celebrato attraverso la rievocazione della rivolta contro le truppe zariste del 1905, e numerosi per i film di Dziga Vertov), al design, alle arti applicate e, ultima ma non ultima, alla nuova tecnica per eccellenza: la fotografia.

Profondamente influenzato dalle potenzialità eversive ed espressive dei fotomontaggi dadaisti, realizzati in prima persona negli anni precedenti, nel 1924 Rodčenko eleggerà la fotografia a suo strumento principe, impiegandola soprattutto, in un primo momento, per ritrarre amici e parenti.
Il toccante e a buon diritto celebre ritratto della madre (una curiosità: questo primissimo piano è estrapolato da un'immagine originariamente ben più ampia, in cui la donna appare a mezzobusto, seduta ad un tavolo intenta a sfogliare un giornale) è tra le immagini esposte nell'ambito della mostra allestita fino al 28 settembre 2007 nella sede romana dello Shenker Institute, e fa parte della serie Portraits. Rodčenko and his Circle, che propone una galleria di ventotto ritratti di personaggi di spicco del mondo culturale dell'epoca, a partire dalla carismatica figura del poeta ed intellettuale Majakovskij, che tanta parte avrà nella teorizzazione dei movimenti di cui sopra, o del pittore Ševčenko, ritratto tramite un'intensa doppia-esposizione che ne mostra il volto pieno ed il profilo contemporaneamente. L'altra serie - Classic Images -, che completa l'esposizione, va oltre i confini della ritrattistica per proporci alcune delle fotografie che hanno contribuito in maniera determinante ad imporre all'attenzione internazionale lo "stile Rodčenko".

«La fotografia - scrive Michel Frizot - appare a Rodčenko come un mezzo-cardine tra opposte concezioni: strumento meccanico e tecnica nuova, portata all'uso sociale dalla sua immediata leggibilità, permette anche di creare immagini e di ancorarsi, se necessario, all'arte denigrata della linea, della forma e dello spazio, con l'alibi dell'efficacia produttiva», e, considerando le ferree restrizioni espressive imposte dallo stalinismo e la sua efficace opera di asservimento dell'arte alle necessità del regime, prosegue: «La fotografia può allora aiutare ad affrontare l'inasprimento politico e gli obiettivi mediatici e propagandistici imposti agli artisti, mettendo in salvo con consapevolezza le conquiste strutturali duramente riportate nel confronto teorico dalle avanguardie degli anni Venti». Ecco dunque che Rodčenko, pur finendo per fotografare soprattutto soggetti "politicamente corretti e significativi" come parate militari, eventi sportivi e coreografici, architetture ed infrastrutture moscovite, non rinuncerà alla conquista di uno stile originale ed eminentemente soggettivo (e, di conseguenza, fatalmente destinato ad essere ben presto inviso alla leadership di Stalin), maturato all'insegna della sperimentazione e della modernità. Rodčenko fu non a caso uno dei principali protagonisti dell'esposizione "Film und Foto", organizzata nel 1929 a Stoccarda, che esercitò un'influenza determinante nel panorama fotografico internazionale, tanto da passare alla storia come l'evento che presentò al mondo la "Nuova Fotografia", o "Fotografia Moderna" (si veda il box di approfondimento alla fine dell'articolo).

Basta un'occhiata per cogliere i tratti caratteristici dello sguardo costruttivista di Rodčenko, tutti tesi a combattere le convenzioni della fotografia "artistica" radicatesi nella seconda metà dell'Ottocento, e apertamente riconducibili agli esiti pittorici europei maturati nell'ambito del Cubismo e del Futurismo.
Per prima cosa, il punto di vista: programmaticamente ardito (retaggio cubista) - dall'alto o dal basso - rispetto alla normalità di quelle che, con ironia, chiama "riprese ombelicali" (le riprese "ad altezza di cintola" imposte dall'uso di apparecchi medio formato tipo Rolleiflex, con mirino a pozzetto, che la Leica 35mm - messa in commercio nel 1925 ed adottata dallo stesso Rodčenko tre anni dopo - contribuì ad archiviare velocemente); il dinamismo dell'immagine (retaggio futurista) è accentuato dalla vistosa inclinazione dell'asse di inquadratura: la macchina fotografica, posta obliquamente, isola ed evidenzia linee sfuggenti, curve, diagonali, asimmetrie, cogliendo le forme del mondo da angolazioni inconsuete, capaci di sorprendere e disorientare l'osservatore. In alcune delle sue foto più conosciute, come la scalinata (sopra) o "Ragazza con Leica", risulta particolarmente evidente l'uso intensamente grafico delle ombre, chiuse e nette come fossero tracciate a china, eredità del rigore geometrico e compositivo che gli fu proprio fin dai primi quadri astratti creati in seno al Suprematismo.

Inutile dire come un seme di tal fatta - innegabilmente venato di formalismo - fosse germogliato in un terreno quantomai refrattario ad accoglierne e sostenerne la crescita. Nel corso degli anni Trenta, infatti, le restrizioni imposte agli artisti dalla dittatura staliniana si fecero sempre più soffocanti, fino a giungere a stabilire come tutto ciò che non fosse palesemente ed enfaticamente rivoluzionario divenisse automaticamente anti-rivoluzionario, e di conseguenza severamente perseguibile: è l'onnicomprensivo reato di "sabotaggio controrivoluzionario" definito nel quattordicesimo comma del famigerato articolo 58 del Codice Penale della Repubblica Sovietica Federale Socialista Russa, che punisce «ogni cosciente non esecuzione dei propri doveri» (dove nei "propri doveri" rientra ovviamente la celebrazione incondizionata ed esibita della figura di Stalin e della sua linea politica) con almeno un anno di detenzione e la confisca dei beni, fino alla pena di morte nel caso di "circostanze aggravate". Difficile, se non impossibile, continuare ad essere artisti, quando ogni astrazione, ogni sperimentazione, ogni ricerca originale e riconducibile ad una dimensione intima e privata è gravata da una minaccia di persecuzione.

Ci sarà chi accetterà a malincuore il compromesso, pur di continuare a creare: è il caso di Malevič, che, dopo essere stato addirittura arrestato con l'accusa di essere «ideologicamente estraneo ai suoi contemporanei, soggettivista e sognatore», abbandonerà l'astratta purezza delle sue forme geometriche, relegandole sullo sfondo di dipinti nuovamente - e tragicamente, considerate le circostanze - figurativi, ritraenti perlopiù figure tipiche della cultura russa; ci sarà chi soccomberà, come Majakovskij, che nell'aprile del 1930 si sparerà un colpo al cuore; e ci sarà infine chi, come Rodčenko, sceglierà una via mediana: redarguito dal regime per il suo stile troppo incline ad uno sperimentalismo di stampo occidentale, ed invitato a "rientrare nei ranghi" limitandosi a ritrarre solo eventi di Stato, finì per abbandonare la fotografia intorno al 1940. Sedici anni circa di carriera strettamente fotografica: pochi, se confrontati con la maggior parte dei curricula degli altri Grandi della storia del nuovo mezzo; però più che sufficienti, in questo caso, ad infondere una buona dose di coraggio alla fotografia, necessario - come ebbe a scrivere Alvin Langdon Coburn, altro pioniere della prospettiva bizzarra - a «liberarsi dai ceppi di logore convenzioni che, pur essendo un'arte relativamente giovane, l'hanno già tanto ostacolata e limitata, rivendicando così quella libertà d'espressione senza la quale nessun'arte può dirsi viva».

Serena Effe © 06/2007
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La grande esposizione "Film und Foto" (FIFO) fu allestita a Stoccarda, nel 1929, dal Deutsche Werkbund, organizzazione tedesca a sostegno dell'architettura e del disegno industriale moderni. La sua importanza derivò dalla presentazione simultanea delle più interessanti ricerche fotografiche e cinematografiche europee ed americane, così da rendere ampiamente conto delle più disparate tensioni avanguardistiche e sperimentali. «Mai prima di allora, e mai dopo, i due mezzi espressivi - cinema e fotografia - furono così strettamente legati», afferma Beaumont Newhall: la sinergia tra fotografi e cineasti fu incredibilmente fertile e maturò all'insegna di un reciproco scambio di insegnamenti e suggestioni; tra i film proiettati figurano pietre miliari della produzione degli anni Venti come "La passione di Giovanna d'Arco" di Dreyer, "Il gabinetto del Dr. Caligari" di Weine, "L'uomo con la cinepresa" di Vertov e "L'Etoile de Mer" di Man Ray. Per quanto riguarda la fotografia, la mostra sancì il definitivo superamento di ogni residuo pittorialismo e l'emergere in forze di una nuova visione, caratterizzata dalla presa di coscienza dell'autonomia dello specifico fotografico e delle sue numerose applicazioni e campi d'azione (stampa, pubblicità, scienza, tecnica ed industria), del tutto indipendenti dall'ambito della pittura. I fotografi presenti furono circa 150: spiccano i nomi di Steichen, Weston, Abbott e Sheeler per il fronte americano; Baumeister, Burcharz, Renger-Patzsch e Schwitters, per quello tedesco; Kertész, Krull e Lotar per la Francia; e poi l'ungherese Moholy-Nagy, Rodčenko, alcuni esponenti del Bauhaus, l'inglese Cecil Beaton, El Lissitskij e Hearfield con i loro fotomontaggi... nessuno stupore, dunque, per l'entusiasmo con cui l'evento venne unanimamente accolto.

L'importanza di tutto questo venne "ratificata" e chiarita da numerosi testi, tra i quali spicca per autorevolezza e celebrità "Foto-Auge/Œeil et Photo/Photo Eye" di Franz Roh, pubblicato in traduzione italiana appena poche settimane fa - per la prima volta a quasi ottant'anni dalla sua prima apparizione -, dall'editore Liguori. Roh, filologo, storico dell'arte e creatore di fotomontaggi, passa in rassegna alcuni dei possibili impieghi della fotografia a partire da quelli presentati nell'ambito della mostra, per arrivare ad affermare come la distinzione tra realismo e creazione sperimentale (tra "meccanismo" ed "espressione") in fotografia, alla luce dei fatti, non abbia più, a suo avviso, alcuna ragion d'essere.

Franz Roh, "Foto-Auge", a cura di Sara Cecchini e con una Prefazione di Renato Barilli. Sommario: Prefazione Franz Roh alla scoperta del pianeta fotografia di Renato Barilli - Introduzione foto-auge: nuove modalità espressive per un nuovo medium di Sara Cecchini - Meccanismo ed espressione - L'essenza e il valore della fotografia - Tavole - Postilla.