JOEL-PETER WITKIN.
L'ANOMALIA MESSA IN SCENA

Una mostra a Seravezza (Palazzo Mediceo, fino all'8 aprile 2007) celebra la creatività irriverente del fotografo americano Witkin attraverso 54 immagini create tra gli anni '80 e oggi. Macabre messe in scena meticolosamente allestite intorno ai concetti di Morte, Diversità, Anomalia

Joel Peter Witkin - Venere preferita a CristoL'Essere Umano è, per sua inoppugnabile natura, vulnerabile. Vulnerabile nel corpo, fragile e precaria sembianza destinata a corrompersi fino a tornare polvere. Vulnerabile nello spirito, debole ricettacolo di futilità esposto alle lusinghe del vizio, del peccato, della perversione. Mi servo non a caso di termini 'da sermone', imbevuti di moralismo, necessari però a far luce sulle premesse biografiche all'opera di Witkin: una rigorosa educazione religiosa, contrastata tra il cattolicesimo della madre e l'ebraismo del padre.
Perché partire proprio da qui? E' presto detto: perché non può esserci blasfemia laddove non vi sia Fede (un po' come dire, semplificando al massimo, che una bestemmia detta da chi non creda in dio non ha valore né senso di esistere, in quanto rivolta a qualcosa che si presume non esista). Le immagini di Witkin sono invece un'apoteosi del blasfemo; trasudano insubordinazione nei confronti delle convenzioni e della morale cristiana; si nutrono di sacralità profanate.
E risulta chiaro come non vi sia necessità di ribellione laddove non si riconosca il potere di un'autorità superiore contro cui reagire. Immagini come queste, dunque, non potevano che essere generate da un'interiorità profondamente influenzata da concetti quali Redenzione e Condanna; la tensione ideale verso la Salvezza, scontrandosi con l'umana discesa terrena verso la Perdizione, genera in Witkin una sorta di poetica dell' "angelo caduto", esemplificata chiaramente in una delle sue più celebri immagini, Woman once a Bird, del 1990: un corpo di donna, seduto e visto di spalle, costretto in un bustino di metallo stretto intorno alla vita quasi come un antico strumento di tortura; sulla schiena, due ampie lacerazioni conducono l'occhio dell'osservatore laddove in precedenza si presume fossero le ali: ali di uccello o di angelo, poco importa; ali essenzialmente come simbolo di una libertà e di un'innocenza donate e poi sottratte con violenza, destino comune ad ogni Essere Umano.
Contro l'arrogante ipocrisia di un ordine che si vorrebbe all'insegna del Bello e del Buono, Witkin oppone la brutalità delle sue visioni apocalittiche, che si nutrono di deformità (del corpo come dell'anima), di anomalie, di corruzioni materiali quanto spirituali. Emblematica l'immagine Venus preferred to Christ (qui sopra), in cui su uno sfondo giottesco si staglia l'attraente figura di una donna nuda; la croce, spodestata della sua tradizionale centralità, è relegata in un angolo; Cristo è ridotto ad un feto ancora informe, quasi un aborto a cui sia stata negata la possibilità di svilupparsi compiutamente (e che lascia, quindi, un'umanità orfana di redenzione); Venere è qui consapevolemente preferita a Cristo, come esprime chiaramente il titolo, e mentre la croce si libra naturalmente nell'aria, essa ha invece bisogno di un'imbragatura di cinghie e di un'asta da equilibrista per staccarsi a fatica dalla fisicità e materialità terrene. O, ancora, il Crucified Horse, del 1999: al posto del corpo di Cristo, sulla croce appare l'imponente carcassa di un cavallo, come ad elevare la sofferenza di ogni essere vivente a martirio, caricandola di valenze sacre e universali (una lettura alternativa può altresì derivare dalla simbologia tipica del cavallo nella storia dell'arte, che rimanda alla soddisfazione immediata ed istintiva degli impulsi sessuali). Messe in scena sacrileghe che mirano essenzialmente, nelle intenzioni dell'autore, a destabilizzare una visione del mondo piegata alle esigenze del 'politically correct'.

Joel Peter Witkin - Ritratto di un nano, Le Grazie

Immagini che urtano lo sguardo, trafiggono la sensibilità dell'osservatore come acuminate frecce; impossibile non chiamare in causa il concetto di punctum teorizzato da Roland Barthes nel fondamentale saggio "La camera chiara", che qui richiamo attraverso una citazione dal testo "Corpografie" di Erika D'Amico: "Barthes afferma che non è l'osservatore a cercare il punctum ma esso stesso lo invade partendo dalla scena rappresentata, lo 'punta', lo ghermisce: 'Il punctum non si cura della morale o del buon gusto; il punctum può essere maleducato' (R. Barthes)".
Witkin, non a caso, fa della scorrettezza e della 'mancanza di tatto' i suoi vessilli. Con le sue immagini barocche e ridondanti, costruite e maniacalmente studiate fin nel più piccolo dettaglio, enfatizza scenograficamente tutto ciò che preferiremmo non considerare parte del nostro esistere: la morte, il deterioramento a cui siamo destinati, la nostra grottesca imperfezione, le contraddizioni e le lotte interiori entro cui ci dibattiamo. Più che di fotografia, qui si tratta di teatro: morbosi fermo-immagine di una claustrofobica, visionaria rappresentazione che ha per protagonista la caducità dell'esistere, il dramma sotteso alla vita, la vanitas del tutto (ancora un chiaro riferimento biblico: l'omnia vanitas del Prologo dell'Ecclesiaste).
Rifacendosi alle Nature Morte della pittura secentesca, Witkin sostituisce agli oggetti-simbolo tipici di questo genere - orologi e candele, teschi, frutta marcescente, strumenti ricoperti di polvere, fiori recisi... - un raccapricciante repertorio di corpi e membra umane: si veda per esempio Still Life, Marseille (1992), in cui il vaso atto a contenere un mazzo di candidi gigli - simbolo di purezza, da sempre accostato alla figura di Maria nelle Annunciazioni  - è sostituito dalla testa di un cadavere dal volto contratto. Qui, rispetto alle rappresentazioni pittoriche a cui si ispira, il messaggio di fondo risulta palesato ed esasperato fino al parossismo: memento mori, 'ricorda che devi morire'; un perentorio, estenuante ricondurre la mente dell'uomo al suo destino mortale (particolare di cui - dirà qualcuno a ragione - ci si dimentica ben volentieri).
Che la fotografia riconduca, in generale, al concetto di morte, non è certo una novità: basti qui ricordare le parole di Susan Sontag - "Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un'altra persona (o di un'altra cosa)" - o di Roland Barthes, secondo cui l'atto del fotografare, congelando le sembianze del reale e preservandole così intatte anche dopo la morte (della persona ritratta) o la scomparsa (dell'evento), genera nient'altro che 'spettri', fantasmi. In Witkin, questo generico 'potere mortifero' della fotografia viene spogliato di ogni metafora per venirci presentato così, sconcio e sfrontato, in veste di prepotente e incontrastato protagonista dell'immagine.

Joel Peter Witkin - La zattera di George W.Bush

Il parallelismo con il genere pittorico della Natura Morta si rivela assai fertile per comprendere più a fondo l'opera di Witkin: così come i pittori secenteschi seppero condurre la rappresentazione degli oggetti inanimati ai più alti gradi di sofisticazione e virtuosismo pittorico, così Witkin dà sfoggio della propria maestria nel comporre le sue formalmente impeccabili messinscene. Ma c'è un altro aspetto, ancor più interessante: lo sviluppo e l'affermazione della Natura Morta in pittura nell'Europa del Seicento fu strettamente correlata al senso di precarietà che investì il continente in seguito alla guerra dei Trent'anni e al diffondersi delle epidemie di peste; allo stesso modo, le immagini di Witkin possono essere riconosciute - come sostiene Davide Faccioli nel saggio che accompagna le immagini in catalogo - quali "figlie della crisi. Crisi intesa come paura sociale e politica, una crisi permanente che attraversa la civiltà occidentale sviluppatasi nel XX secolo": incubi generati dagli scenari apocalittici del Novecento, dall'olocausto all'11 settembre, passando per l'atomica di Hiroshima.

Come chiaramente si evince da quanto detto finora, la storia dell'arte (materia in cui è laureato) e l'ossessiva tensione verso la 'diversità' costituiscono i cardini del suo percorso creativo. I suoi esordi in campo fotografico sono quantomai vicini all'arte di Diane Arbus: nonostante l'abissale differenza di approccio, ambedue i fotografi concentrano la loro attenzione sulla rappresentazione di un'umanità reietta, affetta da anomalie fisiche, psichiche e comportamentali tali da essere emarginata e temuta al pari di 'mostri' dal resto della società. Witkin, come la Arbus, scatterà le sue prime fotografie (nel '56, all'età di 17 anni) ai 'fenomeni da baraccone' del circo di Coney Island - nani, ermafroditi, freaks in genere -, continuando poi lungo tutta la sua carriera a ricercare la deformità e l'anomalia al fine di sfruttarne il potenziale sovversivo: spettacolarizzando il rimosso, Witkin inietta dosi letali di caos ed irrazionalità fuori controllo nelle vene dell'ordine prestabilito; sbatte in faccia al perbenismo i suoi incubi peggiori, burlandosi dei patetici sforzi con cui la società tenta di coprirsi gli occhi, terrorizzata dal suo stesso provar terrore.


Successivamente, questi stessi elementi 'perturbanti' saranno chiamati ad animare le sue meticolose reinterpretazioni fotografiche di episodi e personaggi mitologici (Apollo e Dafne, Leda e il Cigno, Cupido e il Centauro, le Grazie...) e, soprattutto, di celebri capolavori della storia dell'arte. Ispirandosi ai grandi Maestri della tradizione pittorica del passato, Witkin trasfigura, alla luce dei suoi tormenti interiori, le loro creazioni, dando vita a dei tableaux vivants incredibilmente fedeli alla struttura formale degli originali, quanto anarchici e dissidenti nei contenuti. E' il caso, tra i tanti, di Gods of Earth and Heaven (1988), mirabile d'aprés de La nascita di Venere del Botticelli, in cui il pudico e inviolato corpo della dea è sostituito dall'anomala esibizione di un caso di ermafroditismo; ulteriori ispirazioni gli verranno da Goya, Velazquez, Picasso, Max Ernst... Trovatasi però a dover riassumere in un unico nome questa congerie di influenze e suggestioni artistiche, la critica ha unanimamente battezzato Witkin "lo Hieronymus Bosch della fotografia", in forza della tensione al macabro, al grottesco e al deforme che accomuna i due artisti, maestri d'irriverenza.

Al di là delle immagini relativamente 'soft' presentate a corredo di quest'articolo, sfogliando il catalogo della mostra o una qualsiasi altra raccolta di foto witkiniane ci si imbatte spesso in immagini decisamente inquietanti, tanto da far quasi distogliere lo sguardo dal raccapriccio; salvo poi, ovviamente, tornare ad osservarle con attenzione, in forza di un perverso quanto umano voyeurismo. Alla repulsione sopraggiunge l'attrazione, insieme ad un vago senso di angoscia, di fastidio. Perché, questo? Non sarà per caso il timore (unito ad un fatale senso di ineluttabilità) di rinvenire in quelle immagini una sorta di potere riflettente, quasi fossero specchi tramite cui si rischi di riconoscersi parte di quella stessa umanità priva di difese credibili, esposta alla brutalità di ogni sorta di deriva? Ad ognuno l'onere della risposta. Interrogarsi sulle ambivalenti sensazioni provocate dalla visione di certe immagini significa comunque aver già imboccato un'ottima strada per fruirne in modo critico, autonomo e consapevole. Certo, non ci è dato sapere se queste creazioni fotografiche siano o meno, e in che misura, la sincera emanazione di un'interiorità particolarmente tormentata: quando la provocazione si fa così insistita, in ambito artistico, spunta sempre fuori il fantasma del business, dell'operazione commerciale fine a se stessa (della serie: immagini create appositamente per scandalizzare e, di conseguenza, imporsi all'attenzione mondiale - e al mercato! - con più facilità). L'arte deve necessariamente stupire, afferma Witkin, dichiarando di preferire di gran lunga il termine 'stupore' a quello, più scandalisticamente connotato, di 'provocazione'; in un'intervista, si disse incredulo riguardo la lugubre reputazione di cui godono le sue creazioni: "Non sono affatto lugubri", dichiarò, "si tratta solo della condizione umana: mistero e miseria". Chissà. La buona fede di un artista è concetto troppo ambiguo e relativo per venir indagato compiutamente. Non ci resta che prendere atto del nostro istintivo disagio di fronte ad immagini che fanno innegabilmente leva su certe nostre paure ataviche, ancestrali, contribuendo se non altro a portare a galla dal nostro inconscio tutta una serie di intimi terrori con i quali può valer la pena, di tanto in tanto, fare i conti.

Serena Effe © 03/2007





Il catalogo della mostra allestita a Seravezza fino all'8 aprile 2007, in corso di pubblicazione da Photology, racchiude in un formato 'tascabile' (13x18cm) le 54 immagini esposte, tracciando un riassunto dell'evoluzione stilistica di Witkin dagli anni Ottanta ad oggi. Prezzo relativamente onesto: 20 euro. Corredato dal breve saggio "The Body Horror Picture Show" di Davide Faccioli, introduttivo all'opera del fotografo americano (attenzione: nonostante il titolo sia già presente nei cataloghi delle varie librerie online, la distribuzione verrà correttamente avviata solo intorno ai primi di aprile).


Questo saggio, a firma di una giovane studiosa, mi risulta essere uno dei pochi testi in italiano che si dedichino in maniera più ampia all'analisi dell'opera di Witkin (anche se in maniera non esclusiva, dato che prende in considerazione l'opera di due altri fotografi che hanno fatto del corpo il soggetto privilegiato delle loro foto: Mapplethorpe e Serrano). Attraverso la comparazione e l'analisi approfondita di immagini/testi fotografici, l'Autrice mira a dimostrare quanta parte possa avere il concetto di Morte nella fotografia di questi artisti. L'ho trovata una lettura senz'altro interessante e ricca di stimoli, ma che potrebbe risultare assai faticosa per chi non abbia una certa dimestichezza con il genere della saggistica, a causa dei numerosi termini specifici utilizzati, che rendono alcune parti eccessivamente 'oscure' e ardue da decifrare.


"Disciple & Maître", volume particolarmente interessante tra quelli risultanti da una ricerca su Amazon.com, propone alcune tra le più celebri fotografie di Witkin messe in relazione con le immagini che le hanno direttamente ispirate (di autori quali Evans, Cartier-Bresson, Lartigue e moltissimi altri); le varie coppie di fotografie sono corredate da testi di Witkin stesso, che ne spiega le complesse relazioni, svelando così il processo mentale che si cela dietro la creazione di ogni sua immagine. Il volume, pubblicato come catalogo di una mostra svoltasi a Parigi nel 2000, è disponibile in inglese e francese; 120 pagg., formato 29x29cm; costa 50 dollari (ma su Amazon c'è la possibilità di trovarlo usato ad un prezzo inferiore). Pur non avendo avuto il piacere di sfogliarlo, mi pare uno strumento di tutto rispetto per avvicinarsi con cognizione di causa allo studio dell'opera di Witkin.

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