CHE CONFUSIONE DI CIRCOLO!
Mettere a fuoco da professionisti
Michele Vacchiano, luglio 2003

Molte delle lettere e delle telefonate che arrivano in Redazione riguardano il problema della profondità di campo, della nitidezza ottenuta con la messa a fuoco, della determinazione dell'iperfocale. Insomma, sul circolo di confusione c'è una gran… confusione! Vediamo allora di fare un po' d'ordine su queste questioni.

Un punto immagine (che chiameremo P) posto a una distanza data da una lente positiva genera un fascio di raggi luminosi che colpiscono la superficie frontale della lente stessa e ne vengono rifratti, cioè piegati. La misura di questa "piegatura" dipende dallo spessore della lente, dalla sua curvatura, dal materiale che la costituisce e da altre variabili che determinano l'indice di rifrazione della lente.

Quale che sia questo indice, il fascio di raggi rifratti finisce per formare un cono il cui vertice - che giace sull'asse ottico della lente - è il punto focale, cioè il punto in cui i raggi rifratti dalla lente si focalizzano. Questo punto, che chiameremo P', è l'immagine di P. Il piano che passa per il punto P' e che interseca perpendicolarmente l'asse ottico si chiama piano focale (PF), e coincide con il piano su cui giace la pellicola.

Questo è l'unico piano sul quale è possibile ottenere un'immagine nitida, dal momento che è l'unico piano su cui giace il vertice del cono di raggi. Se la pellicola venisse a giacere su piani diversi dal piano focale (rappresentati in sezione dalle linee rosse), si avrebbe che questi piani intersecherebbero il cono in punti diversi dal suo vertice, e il risultato di tale intersezione sarebbe non più un punto, ma un cerchio. Il punto immagine P verrebbe reso come un cerchietto di luce diffusa, detto cerchio (o circolo) di confusione.

Il potere risolvente dell'occhio umano non è perfetto ed entro certi limiti non distingue un cerchietto da un punto. Quali sono questi limiti? Convenzionalmente si può stabilire che, a una normale distanza di visione, il nostro occhio percepisce come puntiformi tutti i cerchietti aventi un diametro inferiore a 0,25 millimetri. Ho scritto "convenzionalmente" per tre ragioni: la prima è che il limite di 0,25 millimetri non è condiviso da tutti; la seconda è che la capacità di percepire particolari minuti varia da persona a persona: noi miopi distinguiamo molto bene i particolari vicini e il nostro potere risolvente alle brevi distanze è più elevato di quello di un normovedente; la terza è che l'espressione "normale distanza di visione" è tutta da definire. Per un miope la normale distanza di visione è più ravvicinata che per un presbite. Perciò, ancora una volta convenzionalmente, si è stabilito che la normale distanza di visione equivale alla diagonale della stampa che si sta osservando. Grazie al teorema di Pitagora, possiamo dire che osservando una stampa di 20x25 centimetri (8x10 pollici) da una distanza di circa 32 centimetri, tutti i cerchietti di diametro pari o inferiore a 0,25 millimetri ci appariranno come puntiformi.

Come si vede il concetto di cerchio di confusione costante si applica alla stampa finale e non al negativo. Sul negativo le cose cambiano, e di molto, perché i formati di ripresa sono quanto mai vari. Perciò ogni formato ha il suo cerchio di confusione. Come determinarlo? Semplicemente dividendo 0,25 per il numero di ingrandimenti lineari necessari a ottenere, da ogni singolo negativo, una stampa di 20x25 centimetri.

Facciamo qualche esempio.
Per un negativo 8x10" stampato a contatto (fattore di ingrandimento pari a 1) il valore rimane quello di 0,25 mm.
Un negativo di 4x5" (10x12 cm) deve essere ingrandito circa 2 volte (fattore di ingrandimento = 2), perciò il diametro del cerchio di confusione sul negativo sarà pari a 0,125 millimetri.
Un negativo di 6x7 cm dovrà subire 3,5 ingrandimenti, portando a 0,071 millimetri il valore del cerchio di confusione, mentre in un fotogramma di 24x36 mm (7,4 ingrandimenti) tale valore sarà pari a 0,034 mm.

In base a quanto detto possiamo tentare una nuova e più precisa definizione di profondità di campo, che considereremo come la porzione di spazio, davanti e dietro il punto sul quale viene eseguita la messa a fuoco, delimitata da due piani (limite anteriore e limite posteriore) all'interno dei quali tutti i punti hanno un diametro inferiore al diametro del cerchio di confusione su una stampa di 20x25 cm osservata a una distanza pari alla sua diagonale. Questo avviene perché le sezioni dei coni di luce rifratta dall'obiettivo hanno un diametro pari o inferiore a quello del circolo di confusione previsto per il formato di ripresa che si sta utilizzando.

Le due formule base per calcolare i limiti anteriore e posteriore della profondità di campo sono le seguenti:

Limite anteriore:

1) HxD/(H+D)

dove H è la distanza iperfocale e D è la distanza di ripresa.

Limite posteriore:

2) HxD/(H-D)

La distanza iperfocale è la distanza di messa a fuoco che permette di estendere la profondità di campo dall'infinito alla metà di tale distanza ed è sempre riferita ad una precisa lunghezza focale e ad una precisa apertura relativa. Se infatti l'obiettivo viene messo a fuoco alla distanza iperfocale relativa al diaframma scelto, il calcolo del limite anteriore che compare in 1) diventa:

3) HxH/(H+H) = H/2

cioè metà della distanza iperfocale, mentre la formula 2) diventa:

4) HxH/(H-H) = HxH/0 = infinito

Secondo un'altra definizione, la distanza iperfocale è il limite anteriore di profondità di campo quando un obiettivo è messo a fuoco all'infinito e chiuso a un determinato valore di diaframma. Effettuando la messa a fuoco sulla distanza iperfocale si ottiene la massima profondità di campo possibile con quella data lunghezza focale e quel dato diaframma. La distanza iperfocale si ricava dalla formula:

5) H = fxf/NxC

dove f è la lunghezza focale dell'obiettivo, N l'apertura relativa e C il diametro del cerchio di confusione.

Si dice normalmente che la profondità di campo è influenzata da tre fattori:

  • L'apertura relativa;
  • La distanza di ripresa;
  • La lunghezza focale dell'obiettivo in uso.

Nel primo caso la ragione è intuitiva: chiudendo il diaframma si riduce il diametro della base del cono di raggi luminosi e di conseguenza anche l'angolo al vertice diventa più acuto. Il limite definito come diametro del cerchio di confusione viene così raggiunto a distanze maggiori dal vertice, incrementando la sensazione di nitidezza. Le figure qui sotto illustrano graficamente il concetto.

La distanza del soggetto dal punto di ripresa influisce sulla profondità di campo in modo direttamente proporzionale. Facciamo un esempio riprendendo le formule per determinare i limiti anteriore e posteriore. Mantenendo costanti i dati relativi alla focale dell'obiettivo e all'apertura relativa utilizzata, H resterà costante. Ciò che cambia è il valore di D. Se assumiamo come esempio un obiettivo da 50 mm sul formato 24x36 mm diaframmato a f/8 (iperfocale a 9,2 metri) e una distanza di ripresa pari a 4 metri (i risultati sono approssimati al secondo decimale), il limite anteriore sarà:

6) 9,2x4/(9,2+4) = 2,79

mentre il limite posteriore sarà:

7) 9,2x4/(9,2-4) = 7,08

La profondità di campo totale sarà pari a 4,29 metri.

Raddoppiamo adesso la distanza di ripresa, portandola a 8 metri. Ripetendo i calcoli avremo, per il limite anteriore:

8) 9,2x8/(9,2+8) = 4,28

e per il limite posteriore

10) 9,2x8/(9,2-8) = 61,33

In questo modo la profondità di campo totale sarà pari a 57,05 metri.

La lunghezza focale dell'obiettivo influenza la profondità di campo in modo inversamente proporzionale. Mantenendo costanti apertura relativa e distanza di ripresa e raddoppiando la focale, la profondità di campo si ridurrà ad un quarto; al contrario, dimezzando la lunghezza focale la profondità di campo sarà quattro volte più estesa di quella iniziale. In pratica la lunghezza focale influisce sulla profondità di campo secondo un coefficiente quadratico (o di secondo grado). Ne consegue che se la profondità di campo dovesse risultare insufficiente anche a diaframma tutto chiuso, conviene scegliere una focale più corta e poi ingrandire maggiormente in fase di stampa, dato che l'ingrandimento in stampa riduce la profondità di campo apparente secondo un coefficiente di primo grado.

Un luogo comune da sfatare è che la profondità di campo si estenda per due terzi dietro il piano di messa a fuoco e per un terzo davanti ad esso. In realtà questo non avviene quasi mai: se la distanza di ripresa è piccola, la profondità di campo tende ad essere simmetrica rispetto al piano di messa a fuoco, mentre se la distanza di ripresa è grande, essa si estende dietro il soggetto per ben più di due terzi.

Calcolare per credere.

Michele Vacchiano © 07/2003
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