ESPORRE DA MAESTRI: TECNICHE AVANZATE
L'esposizione e gli strumenti che ci aiutano a misurare la luce

Michele Vacchiano, marzo 2001

Situazioni come queste metterebbero in crisi qualunque esposimetro TTL a misurazione integrata. La vasta area scura presente in entrambe le inquadrature ingannerebbe l'esposimetro, inducendolo ad incrementare l'esposizione. Come risultato, il nero diventerebbe grigio e tutto il resto dell'immagine risulterebbe sovraesposto. Io ho effettuato in entrambi i casi una misurazione in luce incidente, e poi ho misurato le aree scure verificando che cadessero nella zona del nero profondo. In questo modo l'area corrispondente al grigio medio sarebbe caduta sul cielo. In un caso (il Monte Rosa verso il tramonto con le nuvole) ho ulteriormente sottoesposto di un diaframma per rendere più leggibili i giochi di chiaroscuro della neve (la scansione ovviamente non è in grado di rendere appieno le nuances e le sfumature tonali della diapositiva originale).

Un Weston Ranger del tipo usato da Ansel Adams. Se ne trovate uno sul mercato dell'usato, imparate a ragionare secondo il sistema metrico americano: i valori esposimetrici sono indicati non in lux ma in… candele per piede quadrato!

L'esposimetro Sekonic L-408 Multimaster. Leggero e maneggevole, oltre che impermeabile, può essere usato anche in condizioni ambientali difficili, come sotto la pioggia o durante escursioni speleologiche.

Un "vecchio" Gossen Sinarsix montato su una folding Wisner. I valori rilevati dalla sonda che esplora il vetro smerigliato vengono riportati dall'apparecchio.

A confrondo due modelli del Gossen Sinarsix. Ben visibile il manico della sonda e il cavo che la collega all'apparecchio.

Situazione di controluce scelta per rendere luminosa l'acqua del torrente. Luminosa, non bruciata: è pertanto necessario evitare di farla cadere nelle zone più elevate della scala. Con l'acqua in zona VIII controllo dove va a cadere il grigio medio, tenendo conto del fatto che desidero mantenere le diverse sfumature di grigio che rappresentano le varie gradazioni di verde dell'erba (illuminata secondo angolazioni diverse). Continuando a misurare, noto che la montagna sulla sinistra e la vetta sullo sfondo (quella sovrastante il ghiacciaio) cadono nella zona 0, perdendo tutti i particolari. Scelgo perciò di ammorbidire il contrasto ricorrendo a una sovraesposizione (+1) da compensare poi con uno sviluppo abbreviato. Anche in questo caso la scansione non rappresenta tutte le sfumature e la ricchezza tonale presenti sul negativo.

Ci sono essenzialmente due modi di accostarsi ai problemi di esposizione. Il primo è funzionale all'ottenimento di un'immagine leggibile. Lo scopo di chi fotografa è in questo caso quello di ottenere una diapositiva o una stampa in cui i valori tonali siano correttamente bilanciati e soprattutto dove le parti importanti (che lo spettatore ritiene importanti) del soggetto siano perfettamente distinguibili.

A questa esigenza fanno fronte gli esposimetri esterni ed interni che misurano in vari modi la luce riflessa dai diversi elementi della scena inquadrata. Un esposimetro a lettura totale effettua una media e restituisce un negativo i cui diversi valori tonali arrivino a formare nel complesso un grigio medio al 18%, che è il grado di riflettenza media della superficie terrestre.

Quando la scena è illuminata in modo ragionevolmente uniforme e i centri di interesse sono uniformemente distribuiti questo tipo di lettura consente immagini ben bilanciate. La lettura spot permette invece di concentrare l'attenzione sul soggetto principale, lasciando che gli elementi di sfondo risultino sovra o sottoesposti, il che si può evitare ricorrendo al flash, usato con lo scopo di compensare lo scarto tonale risultante dal rapporto soggetto-sfondo. La misurazione media integrata con prevalenza della zona centrale vuole proporsi come intelligente compromesso tra i due sistemi, mentre la misurazione multispot o a sistema matrix cerca di risolvere - con differenti metodologie - un problema che alla fine è sempre lo stesso.
Gli esposimetri che misurano la luce incidente non tengono conto del grado di riflettenza del soggetto e teoricamente dovrebbero fornire risultati più affidabili. In realtà non vedo perché non si debba tener conto del grado di riflettenza del soggetto! Personalmente non effettuo mai una misurazione in luce incidente senza affiancarla a una misurazione in luce riflessa su più punti dell'immagine.

I sistemi che abbiamo finora illustrato vengono prevalentemente utilizzati come metodi conoscitivi: il fotografo, in altre parole, usa l'esposimetro per determinare quale sia la "corretta esposizione", cioè per conoscere la coppia tempo-diaframma più idonea a fornirgli un'immagine che altri (e cioè i suoi spettatori) potranno agevolmente leggere. In pratica, lui lavora per fornire al destinatario del suo messaggio ciò che ritiene che il destinatario voglia vedere. In questo modo si fanno le cartoline e i calendari illustrati del Banco Popolare di Lorenteggio. Con dei rischi, derivanti dal fatto che in una percentuale estremamente elevata di occasioni fotografiche (e cioè tutte le volte che il soggetto non sia illuminato quasi frontalmente da un bel sole smagliante contro un bel cielo azzurro) gli esposimetri possono fornire indicazioni inattendibili. Anche quelli dell'ultimissima generazione che - in quanto macchine - sono fondamentalmente stupidi.<

Esiste un secondo approccio ai problemi di esposizione, che nasce da un'attitudine mentale completamente diversa. L'approccio al problema avviene da un punto di vista del tutto opposto al primo; la questione non è più incentrata sul destinatario del messaggio (o meglio sull'immagine mentale che il fotografo se ne è fatta), ma fa perno sul fotografo e su ciò che effettivamente lui vuole comunicare. E' una scelta di fondo che presuppone una filosofia del fotografare del tutto differente dalla prima. Ed è forse ciò che distingue l'artista (che esercita liberamente la propria creatività) dall'abile artigiano (che attua con competenza procedure standardizzate e in larga misura prevedibili).

Occorre innanzitutto partire dal presupposto che la "corretta esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste. Esistono invece - per uno stesso soggetto - diverse esposizioni possibili, ognuna delle quali sarà in grado di mettere in risalto un aspetto dell'inquadratura, di comunicare allo spettatore a quale elemento della scena il fotografo ha voluto attribuire la maggiore importanza. Un esempio semplice chiarirà meglio il concetto. Ci troviamo in un bosco, dove larghe zone d'ombra si alternano a macchie di luce quasi accecante dovute ai raggi del sole che filtrano attraverso il fogliame. Come ci dobbiamo comportare? Una certa manualistica ancora diffusa tra i dilettanti suggerisce, in casi come questo, di effettuare la media esposimetrica dei due valori estremi rilevati: sarebbe come dire che un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore gode di una temperatura media ottimale. In realtà nessuna pellicola possiede una latitudine di posa così elevata da registrare correttamente un simile scarto tonale (pari e talvolta superiore ai 10 EV), per cui "fare una media" non avrebbe senso: avremmo comunque alte luci ancora troppo chiare e ombre ancora troppo scure. Insomma, non è possibile ottenere un'immagine nella quale tanto le alte luci quanto le ombre risultino perfettamente leggibili. Che fare, allora? Evidentemente bisogna scegliere: o si attribuisce maggiore importanza alle zone d'ombra, lasciando alle alte luci (fortemente sovraesposte) uno spazio minimo, oppure si espone per mettere in risalto le zone illuminate, lasciando che le ombre appaiano totalmente nere e minimizzando quindi lo spazio da esse occupato. Le immagini che ne risulteranno saranno tra loro differenti non soltanto dal punto di vista tonale, ma anche dal punto di vista compositivo. Si noti che la scelta esposimetrica è in questo caso del tutto arbitraria: è il fotografo a decidere come esporre, consapevole che le immagini ottenute applicando l'uno o l'altro metodo non solo risulteranno completamente diverse, ma soprattutto diranno cose completamente diverse. Questo a dimostrare che la "corretta esposizione" non è un fatto numerico (dipendente cioè da un dato strumentale), ma una scelta espressiva. E in quanto tale non si misura: si decide! Il fotografo, in altre parole, sceglie quanta luce dare ai diversi elementi della scena, per ottenere un'immagine che lui, e non altri, ritiene la più idonea a veicolare un ben preciso messaggio.

Una simile "rivoluzione copernicana" trova le sue maggiori applicazioni nella fotografia "fine art" ed ha la sua massima espressione nel sistema zonale, teorizzato da Ansel Adams e volgarizzato, fra gli altri, da Zakia e Todd. Tuttavia anche chi lavora con pellicola in rullo (e quindi non può applicare in pieno il sistema zonale) è in grado di ottenere il massimo vantaggio da questo nuovo modo (nuovo soprattutto per il dilettante) di affrontare il problema. L'esposimetro non verrà più usato come strumento conoscitivo ma come conferma dei dati derivanti dall'esperienza e finalizzati a ben precise scelte creative. La domanda fondamentale non sarà più "Qual è la corretta esposizione per questo soggetto?", ma bensì "Che valore intendo attribuire ai rapporti tonali?" E conseguentemente "Dove voglio far cadere la zona del grigio medio?". E' qui che entrano in gioco la creatività e la sostanziale arbitrarietà della scelta espressiva, che fa della fotografia un vero e proprio codice comunicativo, composto da segni caratterizzati da quelle che sono le caratteristiche peculiari del segno (inteso dal punto di vista saussuriano): l'arbitrarietà in primo luogo.

Là dove ho deciso di collocare il grigio medio (paradossalmente potrebbe essere anche la neve, o per contro una zona di ombra profonda) effettuerò la misurazione esposimetrica, certo del fatto che l'esposimetro è tarato per restituire sempre e comunque un grigio al 18%, quale che sia il tono originale del soggetto. L'uso di un esposimetro spot separato è ovviamente irrinunciabile, anche perché - dopo questa prima fase - occorrerà individuare le rimanenti zone della scala, effettuando su ciascuna di esse una misurazione separata. Perché? Semplicemente per verificare di quanto ogni zona misurata si discosta dal grigio medio, allo scopo di evitare che elementi ritenuti importanti risultino scarsamente leggibili. Esempio: decido di rendere con il grigio medio l'erba del pascolo: effettuo pertanto l'esposizione sull'erba, decidendo quindi di farla cadere nella zona V (grigio medio al 18%). Tuttavia voglio anche rendere leggibile la neve che ricopre i ghiacciai sullo sfondo, restituendone i giochi di luce ed ombra e la texture superficiale. Misuro quindi la neve e scopro che essa andrebbe a cadere nella zona IX: troppo chiara, addio texture superficiale! Se lavoro con pellicola in rullo, e non con pellicole piane sviluppabili singolarmente, non posso applicare pienamente il sistema zonale. Non mi rimane perciò che decrementare l'esposizione di uno stop: il prato cadrà nella zona IV, rimanendo ancora leggibile, anche se più scuro, mentre la neve, in zona VIII, rivelerà maggiori particolari. Era un esempio banale (in realtà il procedimento è più complesso), ma forse sufficientemente significativo, dell'importanza che il fotografo dovrebbe attribuire alla valutazione dell'esposizione, troppo spesso lasciata all'arbitrio dei circuiti elettronici.

Non si insisterà mai abbastanza sull'utilità di un esposimetro separato, capace di lettura spot con angolo non superiore ai cinque gradi: un apparecchio molto più maneggevole di quanto potrebbe essere una reflex equipaggiata con teleobiettivo (per restringere l'area di misurazione) e puntata alternativamente sulle diverse aree dell'inquadratura. Utilizzando un esposimetro separato, dotato di lettura in luce riflessa di tipo spot e anche di lettura in luce incidente, io procedo di solito in questo modo.

  1. Effettuo una misurazione in luce incidente e prendo nota dei valori rilevati;
  2. Individuo all'interno dell'area di interesse la zona corrispondente al grigio medio (che io voglio rendere col grigio medio) ed effettuo su di essa una misurazione spot. Confronto i dati rilevati con quelli derivati dalla misurazione in luce incidente effettuata in precedenza. Il più delle volte i due dati coincidono (ormai so valutare a occhio le aree della scala zonale). In caso contrario, annoto mentalmente lo scarto tonale;
  3. Individuo gli elementi della scena che corrispondono alle rimanenti aree della scala zonale. Se esistono elementi che cadono nelle zone estreme (nero profondo o bianco assoluto) verifico che non si tratti di centri di interesse significativi e cerco di inquadrare minimizzando la loro importanza (o addirittura tagliandoli fuori). Questa regola ha evidentemente delle eccezioni: a volte voglio che il soggetto principale, illuminato, emerga dall'oscurità o si stagli contro uno sfondo completamente nero (si vedano le due illustrazioni a colori che corredano questo articolo). E' evidente che in questi casi non elimino dall'inquadratura le aree corrispondenti alle zone 0 e I ma anzi ne faccio elementi importanti della composizione;
  4. Se la misurazione sul grigio medio in luce riflessa è risultata diversa dalla misurazione in luce incidente, valuto lo scarto e decido se tenerne conto in termini di incremento o diminuzione del contrasto (ovviamente quando lavoro con pellicole piane).

Lavorando in grande formato esistono altri metodi di misurazione, estremamente raffinati, che consentono un grado di precisione ancora superiore a quello ottenibile con un esposimetro spot separato. Sto parlando delle sonde esposimetriche capaci di misurare direttamente sul vetro smerigliato. I sistemi Sinarsix (europeo) e Weston (americano) sono di fatto sovrapponibili. La comodità d'uso - soprattutto in esterni - è massima: la cornice entro cui si muove la sonda viene inserita nel dorso come un normale chassis. La sonda può essere posizionata con precisione su ogni punto dell'inquadratura durante la visione sul vetro smerigliato: una vera e propria lettura TTL multispot (le cui aree - virtualmente infinite - sono decise di volta in volta dal fotografo) che tiene ovviamente conto della presenza di filtri e della caduta di luce dovuta ad eventuali incrementi del tiraggio. Grazie a strumenti di questo genere l'applicazione del sistema zonale diventa rapida e agevole: a titolo di curiosità, ricorderò che lo stesso Ansel Adams utilizzava un Weston Ranger 9. Gli esposimetri a sonda prodotti negli anni Settanta sono ancora perfettamente funzionanti, anche se recentemente l'adozione di microchip e display a cristalli liquidi ne ha reso ancor più facile l'uso. Personalmente utilizzo sia un "vecchio" Gossen Sinarsix a sonda sia un moderno Sekonic L-408 MultiMaster, dotato di lettura a luce incidente e riflessa, sia in luce continua che in luce lampo.

Chi realizza fotografie destinate ad essere stampate su carta (ad esempio, chi lavora per l'editoria o la pubblicità), deve poi tenere conto di un'ulteriore complicazione. Se infatti una diapositiva può presentare una gradazione tonale che si estende fino a sei stop, una stampa su carta non supera di solito i quattro stop di differenza fra ombre e alte luci. Quando l'immagine fatta di alogenuri d'argento diventa immagine fatta di inchiostro per stampa, la gamma tonale va a farsi friggere. Questo spiega perché una diapositiva che appare così ricca quando la si osserva sul visore diventa così scialba e insignificante una volta stampata sulla rivista. Ad aggravare le cose c'è il fatto che tra la diapositiva originale e la stampa tipografica c'è di mezzo un fotolitista, che di fatto decide quale parte di informazione debba restare e quale andare perduta. Insomma, un personaggio estraneo alla realizzazione della fotografia che decide, arbitrariamente, come trattare il lavoro del fotografo. Per evitare questi inconvenienti, occorre agire su due fronti. Innanzitutto, in fase di esposizione bisognerebbe fare in modo che tutti i centri di interesse più significativi rimangano compresi entro una gamma tonale non superiore ai quattro stop. In altre parole, dopo aver determinato la zona del grigio medio, occorre controllare che la zona più chiara con dettagli leggibili e la zona più scura con dettagli leggibili cadano entro un "range" non superiore ai quattro stop, tenendo conto del fatto che le zone che eccedono questi valori verranno rese, rispettivamente, come luci bruciate o ombra prive di dettaglio. Non basta: bisogna poi indicare al fotolitista quali sono i dettagli importanti (che quindi vanno lasciati) e a quali zone prestare la maggiore attenzione durante la realizzazione del fotolito. Per farlo, si può realizzare una copia Polaroid della diapositiva, o ritagliare un pezzo di pellicola trasparente da sovrapporre alla diapositiva, con su scritte le indicazioni del caso (soprattutto la zona del grigio medio).

Come si vede, la "corretta esposizione" non è tanto una generica "misurazione della luce", spesso lasciata ai circuiti della fotocamera e svincolata dalle possibilità di controllo del fotografo, quanto piuttosto un procedimento complesso, la cui esecuzione - prima che tecnica - è fondamentalmente concettuale e mentale, e attiene ai fondamenti stessi della creatività fotografica.

Michele Vacchiano © 03/2001
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