MACROFOTOGRAFIA IN DIGITALE
Una prova di compatibilità
Michele Vacchiano, febbraio 2009

Il mondo digitale non sembra mostrare un grande interesse nei confronti della macrofotografia. Rispetto a una ventina di anni fa le proposte del mercato si sono notevolmente ridotte. Esistono – è vero – soluzioni interessanti, ma sono limitate a poche case produttrici e non sempre offrono una vera compatibilità.

Intendiamoci, gli obiettivi macro (quelli veri, ottimizzati per le brevi distanze di ripresa e capaci di raggiungere almeno un rapporto di 1:2) sono presenti in ogni corredo reflex. Molte case costruttrici propongono anzi modelli differenziati in termini di focale e apertura relativa, per poter far fronte a tutte le esigenze di ripresa.

Tuttavia i macrofotografi più esigenti sanno bene che il sistema più versatile e completo è costituito dall’unione di un soffietto di estensione con un obiettivo “bellows” (cioè privo dell’elicoide di messa a fuoco, che va effettuata estendendo il soffietto). Un sistema di questo genere è in grado di garantire rapporti di ingrandimento che vanno dall’infinito a un valore che supera il rapporto di 1:1 (di quanto, dipende dai modelli). Un tempo presenti in tutti i corredi di una certa importanza, i soffietti e gli obiettivi bellows sono oggi quasi scomparsi dai listini delle case produttrici.

Fra i pochi rimasti, i diversi sistemi proposti da Novoflex appaiono a tutt’oggi la soluzione più elegante e versatile, ma i costi non sono certo alla portata di tutti i fotoamatori, senza contare i problemi di compatibilità con i vari sistemi reflex, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento dell’automatismo del diaframma.

In un articolo dell’ottobre 2005 avevamo parlato dello Zeiss Makro-Planar CF 135 mm f/5,6, l’obiettivo “bellows” destinato al sistema Hasselblad serie V. All’epoca lo avevamo utilizzato su un corpo 503 CW, ottenendo risultati di tutto rispetto tanto su pellicola quanto sul sensore del dorso digitale Ixpress V96C.

Ma come si comporterà questo obiettivo se accoppiato a un sensore “estraneo”?
La domanda non è peregrina, dato che l’unione tra sensori e obiettivi può talvolta riservare delle (sgradite) sorprese. Un obiettivo che fornisce risultati eccellenti su un certo tipo di sensore può apparire scadente se abbinato a un sensore di tipo diverso. Per cui la qualità finale dell’immagine – come sempre, e come avviene anche lavorando su pellicola – è data da una catena di elementi di cui l’obiettivo costituisce soltanto un anello.

Inoltre va ribadito quanto più volte abbiamo detto: usare su un formato inferiore un obiettivo progettato per un formato superiore è un’operazione non esente da rischi. Vediamo perché.

Quando un progettista disegna un obiettivo, deve riuscire a garantire una resa ragionevolmente uniforme tra centro e bordi. Quanto più il formato del negativo aumenta, tanto più diventa necessario sacrificare un po’ la qualità al centro per evitare un’eccessiva perdita di nitidezza ai bordi. Ogni volta che noi usiamo su un formato inferiore un obiettivo progettato per un formato superiore, di fatto utilizziamo proprio il centro del sistema di lenti, e cioè quell’area dove (contrariamente a quanto comunemente si crede e – purtroppo! – si scrive) la qualità è più scadente di quanto sarebbe se noi utilizzassimo un obiettivo progettato per il formato che stiamo usando.
Inoltre, l’eccesso di campo coperto e l’ingente quantità di luce che conseguentemente attraversa il sistema ottico rischiano di causare perdite di qualità dovute a fenomeni di riflessione interna.
Infine dobbiamo considerare la stessa filosofia progettuale che sottende alla realizzazione di un obiettivo di medio formato. A mano a mano che le dimensioni del negativo aumentano, la necessità di ingrandirlo in fase di stampa diminuisce in proporzione. Pertanto il puro e semplice potere risolvente (ossessivamente perseguito dai cultori del piccolo formato) perde gradatamente importanza. Dato il limite di risoluzione dell’occhio umano, un obiettivo che risolva 80 linee per millimetro (comprensibile quando il fotogramma debba essere ingrandito decine di volte) si rivela perfettamente inutile quando il fattore di ingrandimento è sensibilmente inferiore. Pertanto adoperare un obiettivo su un formato più piccolo di quello per cui esso è stato progettato rischia di generare immagini scadenti a causa di un potere risolvente inferiore a quello che avrebbe un obiettivo progettato per il formato che si sta usando. Insomma, chi monta sulle reflex 35mm gli obiettivi per il medio formato, nell’illusione di migliorare la qualità delle proprie immagini, rischia di commettere un errore madornale.

Abbiamo detto apposta “rischia di commettere”, e non “commette”, perché tutto questo discorso – valido in linea teorica – non tiene conto di variabili fondamentali come la qualità intrinseca dell’obiettivo, la capacità di risposta e il potere risolvente del sensore, insomma tutti quegli “anelli della catena” di cui abbiamo parlato poco sopra.

Al di là di tutti i discorsi più o meno teorici, l’unico verdetto definitivo è quello reso possibile dall’analisi delle immagini.

Abbiamo perciò provato a realizzare alcune riprese, a diversi rapporti di ingrandimento, applicando a una Canon Eos-1Ds Mark II il Planar da 135 millimetri, montato su soffietto Hasselblad.

La scelta di utilizzare un soffietto e un obiettivo destinati al medio formato è stata, nel nostro caso, una necessità. Sulla Eos-1Ds Mark II (come anche sulla più recente Mark III) non è possibile montare i soffietti di estensione destinati al piccolo formato, a causa della base del corpo macchina, sovradimensionata e sporgente rispetto al piano del bocchettone portaottica. Questa seconda impugnatura serve proprio a garantire una buona presa quando la macchina è adoperata in verticale, oltre che ad alloggiare il vano batterie. La necessaria semirotazione del soffietto richiesta dall’innesto a baionetta fa sì che l’estremità posteriore della rotaia di scorrimento vada a toccare questa protuberanza, impedendo il montaggio dell’accessorio. La soluzione sarebbe quella di frapporre un tubo di prolunga tra il corpo macchina e il soffietto, in modo da distanziarlo quel tanto che basta per impedirgli di interferire con la carrozzeria dell’apparecchio. Ma così facendo si perderebbe la possibilità di messa a fuoco all’infinito che gli obiettivi “bellows” consentono. Nel nostro caso, invece, l’anello adattatore utilizzato per montare le ottiche Hasselblad su corpi Canon ha uno spessore sufficiente a distanziare quanto basta la struttura posteriore del soffietto dal corpo macchina, impedendo ogni interferenza. Questo maggiore spessore, necessario a compensare la differenza di tiraggio esistente tra i due sistemi, ha giocato a nostro vantaggio.

Per minimizzare le perdite di nitidezza dovute alle vibrazioni la reflex è stata montata su treppiede, lo specchio è stato sollevato ed è stato usato un cavo di scatto flessibile.

Come fonte di illuminazione è stato adoperato lo stesso flash anulare Sunpak descritto nell’articolo del 2005, affiancato, quando necessario, dal flash Canon Speedlite 580EX usato in manuale (l’E-TTL si sarebbe rivelato del tutto inutile ed anzi avrebbe fornito risultati inattendibili).

Fra tutte le fotografie scattate sono stati scelti alcuni esempi. Le immagini vanno viste in coppia. Quella in alto è la fotografia originale, scattata in RAW e successivamente ottimizzata per il web. Quella in basso è un ritaglio (crop) di 500 pixel di lato dell’immagine originale visualizzata alle dimensioni reali.

Ed ecco le immagini.

Come si può vedere dagli esempi, l'obiettivo scelto per la prova si comporta egregiamente in termini di risoluzione dei dettagli, contrasto e nitidezza generale. Chi scrive lo utilizza normalmente per tutti i lavori che possono prescindere dalla preselezione del diaframma e - ovviamente - dall'autofocus, ed in particolare quando la macchina è montata su cavalletto e il soggetto concede il tempo necessario. E' evidente che la "caccia fotografica" sul campo alla ricerca di farfalle o insetti sfuggenti richiede attrezzature di altro tipo.

Michele Vacchiano © 02/2009
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