CON IL SOLE NEGLI OCCHI
Come gestire, sfruttare ed eliminare i riflessi nell'obiettivo
Michele Vacchiano, aprile 2005

Come si comporta il vostro obiettivo quando fotografate controluce? E perché certe ottiche non sono in grado di fotografare il sole (ma anche soltanto un lampione stradale) senza creare fastidiosi poligoni luminosi che rovinano l'immagine? Quanto è importante il trattamento antiriflessi? Il paraluce serve davvero?

Figura 1. Il sole tramonta tra il Mont Glacier e la Tersiva. Un efficace trattamento antiriflesso multistrato e uno schema ottico semplice hanno consentito di scattare questa immagine in modo assolutamente "pulito" e privo di fastidiosi riflessi, che avrebbero disturbato la scarna essenzialità della composizione.

Figura 2. Il torrente Orco a Ceresole Reale. Sullo sfondo le Levanne. Controluce pieno che ha causato fastidiose macchie di luce e un'immagine fantasma del foro del diaframma. La colpa è dell'obiettivo grandangolare a schema retrofocus, caratterizzato da un elevato numero di lenti.

Figura 3. Un obiettivo grandangolare non retrofocus (e pertanto caratterizzato da poche lenti) ha consentito di includere il sole nell'inquadratura senza con questo diminuire il contrasto generale dell'immagine.

Figura 4. Punta Regina e Mont Néry da Estoul, al pomeriggio. Graflex Super Graphic con dorso 4x5" e obiettivo Schneider Super-Angulon 90 mm f/8.

Figura 5. Albero fiorito nel Vallone di Neraissa. Anche in questo caso il controluce spinto ha causato immagini fantasma del foro del diaframma. Questa volta la colpa è di un obiettivo "vecchio" e dotato di trattamento a un solo strato. Graflex Super Graphic con dorso 4x5" e obiettivo Graflex Optar 135 mm f/4,7.

Figura 6. Baite a Estoul in inverno. Il trattamento antiriflesso ha consentito di mantenere un buon contrasto, ottenendo un'immagine priva di flare e riflessi parassiti.

Figura 7. Ottobre in Valle dell'Orco. Il sole che filtra tra i rami non crea perdite di nitidezza né fastidiosi riflessi, grazie alla semplicità dello schema ottico. Minox 35 GT con obiettivo Color Minotar 35 mm f/2,8.

Il multicoating provoca fenomeni di interferenza luminosa che "colorano" diversamente i vari obiettivi. Anche questo è un sistema per verificare se l'ottica che si sta usando (o che si vuole acquistare) è stata sottoposta a trattamento antiriflesso.

Un obiettivo Fujinon per grande formato sottoposto a trattamento antiriflesso multistrato: attraversando diversamente i vari strati la luce bianca viene scomposta creando riflessi di diverso colore: un altro indizio utile.

Fotografare il sole. O anche solo una lampada, una candela, una qualunque fonte di luce. Per alcuni obiettivi è un'impresa, o peggio, una catastrofe. Per bene che vada la nitidezza e il contrasto diminuiscono drasticamente, si crea una specie di foschia, i colori si desaturano. E' il cosiddetto flare, che trasforma un'immagine potenzialmente suggestiva in una vera schifezza. Se poi si è proprio sfortunati, al flare si aggiunge una grappolata di poligoni luminosi (immagini fantasma del foro del diaframma) che si dispongono in fila lungo il percorso di un raggio di luce. A che cosa sono dovuti questi fenomeni? E quali sono i rimedi possibili?

Le cause
Quando si parla di riflessi interni e di flare viene di solito tirato in ballo il trattamento antiriflesso. In realtà un trattamento antiriflesso inesistente o carente non è l'unico colpevole. Come vedremo, il trattamento antiriflesso ha una funzione primaria diversa. La prima causa della presenza di riflessi interni e rifrazioni parassite risiede nello stesso schema ottico dell'obiettivo. La forma, la curvatura, la disposizione delle lenti, ma soprattutto il loro numero, influiscono pesantemente sulla nitidezza. Quanto più un disegno ottico è semplice (fatto cioè di poche lenti) tanto meno elevato sarà il rischio di perdite di nitidezza (figura 1).

La spiegazione di questo sta nel fatto che la lente non è soltanto un mezzo attraverso cui la luce passa, ma è anche un corpo solido caratterizzato da superfici sulle quali la luce si riflette. Quando un raggio di luce colpisce una lente, ne viene in parte rifratto ed in parte riflesso. Allo stesso modo, nel passaggio successivo (dal vetro all'aria), il raggio rifratto dalla lente è anch'esso in parte riflesso all'interno della lente stessa. L'illustrazione che segue evidenzia questo fenomeno. La linea nera rappresenta il raggio che - rifratto dalla lente - andrà a colpire il piano focale; le linee rosse rappresentano invece la quantità di luce che viene riflessa all'indietro nel passaggio aria-vetro e vetro-aria.

Queste riflessioni parassite provocano una diminuzione della quantità di luce che attraversa la lente e contestualmente una diminuzione del contrasto. Moltiplicando quanto descritto per il numero di lenti che costituisce un obiettivo, ci si può spiegare perché il contrasto globale di un'immagine possa risultare appena la metà del contrasto presente nella scena inquadrata.

I rimedi
La prima e più importante soluzione al problema consiste nel mantenere contenuto il numero di lenti che costituisce un obiettivo.
In teoria un obiettivo potrebbe essere costituito da una sola lente convergente. Questa, tuttavia, presenterebbe una quantità di aberrazioni incompatibile con un livello accettabile di qualità di immagine. La correzione delle aberrazioni è il motivo che spinge i progettisti ad aumentare il numero di lenti all'interno del sistema. Questo numero può essere mantenuto basso.

Il fotografo potrà contribuire al miglioramento qualitativo delle proprie immagini privilegiando gli schemi ottici semplici. Di fronte a due obiettivi di pari focale ma di differente luminosità chiediamoci se davvero abbiamo bisogno di quel diaframma in più, che non solo si rivelerà oneroso in termini economici, ma che soprattutto potrebbe dimostrarsi dannoso in termini di qualità di immagine, a causa del maggior numero di lenti necessario a correggere le aberrazioni presenti alle maggiori aperture.
Nelle lunghe focali, si privilegino gli schemi lungo fuoco o i derivati del tripletto di Cooke (come il Sonnar usato in figura 1) piuttosto che gli schemi a teleobiettivo, per loro natura più critici e bisognosi di un maggior numero di elementi volti a correggere le numerose aberrazioni insite nel disegno originario.

Un'analoga criticità si riscontra negli schemi retrofocus che caratterizzano gli obiettivi grandangolari destinati ai sistemi reflex (figura 2). Purtroppo a questo non c'è rimedio (tutti i grandangolari reflex sono a schema retrofocus, altrimenti lo specchietto, sollevandosi, andrebbe a frantumarsi contro la montatura posteriore dell'obiettivo), perciò non resta che utilizzare consapevolmente questi obiettivi, evitando ad esempio i controluce più spinti. Nessun problema, invece, con i grandangolari non retrofocus progettati per le fotocamere a telemetro (figura 3) o con quelli a schema simmetrico realizzati per il grande formato (figura 4).

A maggior ragione andranno evitate le riprese controluce quando si usano gli obiettivi zoom, il cui elevato numero di lenti è giustificato - oltre che dalla necessità di correggere le aberrazioni - dall'esigenza di assicurare in modo continuo la variazione di focale.

Il secondo espediente utilizzato per tenere sotto controllo i riflessi interni è costituito dal trattamento antiriflesso. Una sostanza o una miscela di sostanze chimiche vengono depositate per sublimazione sulla superficie delle lenti, in modo da formare uno o più strati capaci di intercettare e bloccare i raggi riflessi. In questo modo la trasmissione della luce all'interno del sistema viene ottimizzata e il contrasto viene aumentato.

Il trattamento antiriflesso a un solo strato fu adottato a partire dal 1930 circa. Purtroppo in alcuni casi (controsole spinto) esso non è ancora in grado di garantire una protezione efficace (figura 5).

L'antiriflesso multistrato nacque in casa Zeiss non molto tempo dopo, ma fu adottato a livello commerciale solo dopo la guerra, essendo considerato segreto militare dalle autorità del Terzo Reich, date le sue superiori prestazioni nell'ambito della fotografia aerea.

Alla fine degli anni Sessanta Asahi brevettò il metodo SMC (super multi coating) affermando - tra lo scetticismo generale - di riuscire a stendere ben sette strati antiriflesso sulla superficie delle lenti. Fuji rispose di essere ancora più avanti nella ricerca, dato che il suo sistema EBC (electron-beam coating) prevedeva ben undici strati. Applicato, fino a quel momento, ai soli obiettivi cinematografici, il sistema EBC venne esteso presto anche agli obiettivi per fotocamere. Gli ultimi a convincersi dell'efficacia del trattamento antiriflessi furono i progettisti della Leitz, che tuttavia si affrettarono ad adottarlo allo scadere del brevetto Asahi. Oggi il trattamento multistrato è uno degli elementi di forza di case come Zeiss o Rodenstock (che lo utilizza anche per i suoi occhiali da vista). Un severo trattamento antiriflesso multistrato garantisce, anche nel controluce, immagini nitide e ben contrastate (figura 6).

Come si riconosce se un obiettivo è dotato di trattamento antiriflesso multistrato? Tutti gli obiettivi prodotti a partire dagli anni Ottanta ne sono dotati. Il problema può riguardare certe ottiche più vecchie acquistate sul mercato dell'usato. La verifica più semplice consiste nell'osservare la montatura in metallo dell'obiettivo. Il trattamento antiriflesso è identificato dalla sigla MC (multicoated), oppure - per gli obiettivi Fujinon - dalla sigla EBC.

Leggende metropolitane
Il trattamento antiriflesso è dunque sufficiente a consentirci di fotografare il sole senza flare e senza immagini fantasma del foro del diaframma?
Per quanto possa sembrare strano, la risposta è no. Il trattamento antiriflessoè un componente necessario, ma non sufficiente a garantire la totale nitidezza, in quanto deve sempre essere accompagnato da uno schema ottico caratterizzato da una progettazione accurata e da un numero di lenti non eccessivo (figura 7). Ricordo che ancora agli inizi degli anni Settanta in casa Leitz si attribuiva al ridotto numero di lenti un'importanza maggiore di quanta non se ne desse al trattamento multistrato.

Il paraluce migliora la situazione? No, almeno non quando il sole entra direttamente nell'obiettivo. Esso è comunque in grado di migliorare la resa generale grazie alla sua capacità di bloccare i raggi di luce che provengono da aree estranee al campo inquadrato e che colpiscono obliquamente la lente frontale.

Il filtro polarizzatore migliora il contrasto? Assolutamente no! L'efficacia del polarizzatore è nulla nelle riprese controluce. Il suo uso, anzi, può rivelarsi dannoso a causa dei riflessi in più generati da un'ulteriore coppia di superfici aria-vetro messa davanti all'obiettivo. Per lo stesso motivo vanno rimossi (e mai più utilizzati, per favore) tutti quei filtri che il dilettante lascia costantemente avvitati alla filettatura dei suoi obiettivi allo scopo di proteggere la lente frontale da urti e polvere.

Il controluce e l'esposizione
Il controluce o la presenza di riflessi (sull'acqua, sulla neve o su altre superfici) ingannano l'esposimetro, che tende a fornire immagini sottoesposte.
Quando si vuole fotografare il sole alto nel cielo, occorre evitare che il paesaggio risulti troppo scuro (se il cielo è esposto correttamente) o al contrario che il cielo si tinga di un biancore insignificante e slavato (se si espone per il paesaggio).

Una delle possibili soluzioni è il ricorso a un filtro digradante grigio-neutro, che decrementa l'esposizione nella zona del cielo e riequilibra lo scarto tonale esistente tra questo e il paesaggio terrestre, anche se - su questo non si insisterà mai abbastanza - i migliori risultati si otterranno soltanto ricorrendo ad un'accurata, ragionata e meticolosa scelta dell'esposizione.

Michele Vacchiano © 04/2005
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