CHI HA PAURA DEL TEMPO CATTIVO?
Fotografare quando il tempo è brutto, piove, nevica, c'è la nebbia e di notte

Rifugio Bezzi, Valgrisenche.
Domani si parte per la Becca della Traversière, poi si raggiungerà il rifugio Benevolo, in Val di Rhêmes.
Il tempo è orribile: la tormenta tamburella contro i vetri e il vento sembra voler scuotere i solidi muri in pietra del rifugio. Non c'è altro da fare se non controllare l'attrezzatura da montagna: ancora una volta mi assicuro che i ramponi calzino bene e senza giochi, che la corda sia arrotolata con cura, che la dragonne della picozza mi circondi il polso senza stringere troppo. Qualcuno inganna il tempo che ci separa dalla cena leggendo "Topolino". Altri sfogliano vecchie riviste di alpinismo già consultate da centinaia di occhi.

Mi siedo accanto alla finestra, quella rivolta verso il ghiacciaio della Grande Sassière, alla ricerca di un segno qualunque che mi faccia capire l'evoluzione del tempo, ma la tormenta mi impedisce di scorgere alcunché. Domani il sentiero sarà una scintillante e letale lastra di ghiaccio. Dopo una mezz'ora di biancore accecante qualcosa accade. Verso sud-ovest il cielo si squarcia, smette improvvisamente di nevicare e la visibilità migliora. Il vento rinforza e disperde le nuvole come petali impazziti. Una lama di sole penetra come un faro attraverso quello strappo nel cielo e investe di luce dorata il ghiacciaio e le pareti appena spruzzate di neve. Il contrasto tra luci ed ombre è anche un contrasto di temperature cromatiche, di rosa acceso e di azzurro cupo. Senza una parola infilo la giacca a vento, afferro la Contax e apro la porta della sala.

"Dove vai?" mi domanda un coro di voci allarmate.

"Esco a fotografare" è la mia laconica risposta.

Chi mi conosce scuote il capo in silenzio. Chi osa mormorare "ma è pazzo?" non riceve risposta se non un rassegnato rinchiudersi nelle spalle.

Fuori, il vento mi investe con la violenza di un treno merci. "Solo cinque minuti" impongo a me stesso. Indosso soltanto una T-shirt sotto la giacca a vento e sarebbe da idioti beccarsi un principio di congelamento a pochi passi dal rifugio. Giro intorno all'edificio alla ricerca di quella luce che mi aveva colpito e quando svolto l'angolo della facciata esposta a nord il vento sembra volermi sollevare come un aquilone. Ma è proprio lì che scopro le inquadrature più spettacolari. Sei, sette rapidi scatti in sequenza e poi mi metto al riparo dietro lo spigolo del muro. Ancora qualche inquadratura in giro e poi rientro.

"Ma non si rovina la macchina con questo freddo?" mi chiede qualcuno. Il gestore del rifugio capisce che sto per lanciarmi in una delle mie lezioni improvvisate e mi mette fra le mani una tazza di vin brulé che accetto con gratitudine.

Anche se i fotoamatori nutrono, nei confronti della loro attrezzatura, un'ipocondriaca apprensione, in realtà macchine e obiettivi sono in grado di sopportare qualche moderato strapazzo senza risentirne. Le cose a cui fare attenzione sono veramente poche.

Il freddo non causa mai danni permanenti. Può bloccare qualche meccanismo (ad esempio la trasmissione automatica del diaframma), indurire i lubrificanti e soprattutto mettere fuori uso le pile. Se avete una di quelle macchine che senza pile non fanno nulla (neppure scattare su un tempo fisso) datevi i pugni in testa da soli, ché è un problema vostro, non mio. Riscaldare la macchina tenendola vicino al corpo non serve a molto, e in più facilita la formazione di condensa: per bene che vada l'obiettivo si appanna e voi non fotografate più niente.

Temete piuttosto il caldo, che liquefa i lubrificanti e dilata i materiali, aumentando le tolleranze meccaniche. "Caldo" non vuol dire soltanto lasciare la fotocamera dentro un'auto parcheggiata al sole (dove una banda di scriteriati continua ad abbandonare cani, bambini e macchine fotografiche), ma anche appoggiarla in terra durante una sosta: anche se fa freddo, la carrozzeria (nera) immagazzina i raggi del sole e crea all'interno una situazione da forno per pizza.

L'umidità danneggia le parti metalliche e i contatti elettrici, ossidandoli. Umidità non vuol dire soltanto far cadere la fotocamera in mare dal ponte della Queen Elizabeth, ma anche passare da un ambiente freddo a uno riscaldato: la formazione di condensa può causare dei danni. In questo caso è bene smontare l'obiettivo e pulire carrozzerie e lenti con un panno asciutto. Per le lenti usate solo ed esclusivamente cartine Kodak (faccio pubblicità? Pazienza), evitando come la peste le cartine al silicone usate per la pulizia degli occhiali: ci tenete al vostro trattamento antiriflessi, o no? Se lavorate in ambiente umido (speleologia, torrentismo, rafting) fate controllare la macchina da un riparatore o dall'importatore almeno una volta all'anno, alla ricerca di parti ossidate.

La polvere non è il Maligno: un po', di polvere sulle lenti non pregiudica la resa dell'obiettivo. Tuttavia, poiché pulire è bene, ma non sporcare è meglio, cercate di evitare di sottoporre la fotocamera alla polvere. Il che significa, essenzialmente, metterla al sicuro nello zaino quando scendete di corsa lungo il sentiero sollevando più polvere che una mandria di bisonti in fregola, e spolverarla con un pennellino pulito quando tornate dalle vacanze.

Il resto sono ovvie banalità, del tipo evitate di scaraventare in terra l'apparecchio. Veramente a me accadde di far volare una reflex biottica in un crepaccio (proprio sul ghiacciaio della Traversière) e di dovermi calare in corda doppia per recuperarla. Il dorso si era aperto, quattro fotogrammi avevano preso luce e il tappo dell'obiettivo era andato a perdersi nelle profondità insondabili del ghiacciaio: tra duecento anni verrà espulso alla base del fronte glaciale. Aspetterò. Comunque la macchina funziona ancora. Con un tappo nuovo.

Michele Vacchiano © 1999
Riproduzione Riservata

Foto di Michele Vacchiano © 1999
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