IL PAESAGGIO MALINTESO
Si può difendere un ambiente che non ci tocca immediatamente nell’animo?
Lo si può poi rimpiangere quando scompare?

Vitantonio Dell'Orto, novembre 2005

Linee geometriche, campiture colorate, forme in sequenza: paesaggio? Certo, ma non Natura.

Nadir Magazine © Il nostro paese è considerato a buon diritto la patria del paesaggio dolce e armonioso (ho dei dubbi che lo resti per molto tempo ancora, ma questa è un’altra storia). Le colline dell’Italia centrale, tanto per fare un facile esempio, sono decantate e raffigurate da secoli; la fotografia non si è certo tirata indietro in questa gara celebrativa. Campi di grano, pascoli, filari di cipressi, oppure frutteti in fiore, vigneti nei caldi colori autunnali, e ancora campi di lavanda, di girasoli, di colsa. È tutto un inno alla bucolica poesia della natura… della “natura”? Esiste un fondamentale equivoco su questo punto, che a mio parere ha conseguenze subdole.

Campi fioriti, pascoli, boschi di coltivazione fanno parte in realtà del cosiddetto paesaggio antropizzato, ambienti modificati dall’uomo, anche se ormai entrati a far parte della cultura e dell’esperienza visiva di ogni giorno. Sono i luoghi di un’armonia tipicamente umana, razionalizzata, ordinata e addomesticata, ma anche ricca di una sua valenza estetica specifica per l’estremo rigore compositivo in lei connaturata. Tuttavia parliamo di ambienti sostanzialmente artificiali: il loro carattere monotipico e l’appiattimento ambientale che ne deriva li caratterizza anzi come sinonimo di povertà naturale; sono la tomba della famosa “biodiversità”, di cui tanto si parla in questo periodo (spesso a sproposito, rischiando di trasformarla in un vuoto slogan). Nella sua eleganza organizzata il paesaggio antropizzato è qualcosa di molto diverso dal paesaggio della Natura, quella con la “N” maiuscola.

A questo punto occorrerebbe una definizione di cos’è la Natura, un tema che da solo riempirebbe un libro, mentre ho già consumato la metà dello spazio concessomi per questo intervento… limitiamoci a considerare Natura quell’ambiente che si autoregola e autodetermina, i cui meccanismi sono leggi alle quali l’uomo si adegua, rispettandole, e che non sovverte interamente a fini utilitaristici. Qualcuno potrebbe dire che di questo tipo di Natura non ne esiste sostanzialmente più (i pochi lembi lasciati esistere per gentile concessione, come foglie di fico) e forse non avrebbe tutti i torti (anche su questo punto si potrebbe scrivere un libro, anzi è già stato scritto: “La fine della Natura”, Billy McKibben, Bompiani 1989).
Cosa centra la fotografia in tutto questo, direte voi? Centra, perché questi posti, alla fine, a noi piacciono. Li cerchiamo, li fotografiamo. Nulla di male in questo, anzi, ma è interessante come il modo in cui ci rapportiamo ad essi ci possa far capire quali sono i nostri meccanismi mentali e gli equivoci che possono generare.

Nadir Magazine ©L’uomo tende ad apprendere e ragionare per simboli, categorie e schemi, e di conseguenza sente più prossimo a sé quello che risponde a queste logiche, anche dal punto di vista puramente estetico. Il nostro occhio “legge” il paesaggio selettivamente, siamo colpiti dai motivi geometrici, forse in quanto apparenti frutti dell’intelletto anziché del disordine casuale, e quindi più simili al nostro modo di pensare. Quasi invochiamo con lo sguardo moduli ripetitivi, linee rette e contorni definiti, prospettive, volumi e contorni certi, al punto che quando fotografiamo il paesaggio naturale lo rimettiamo “in ordine”, per rendere una foto più fruibile e interessante. Nel caso dei paesaggi antropizzati veniamo accontentati, perché troviamo filari, ondulazioni, sequenze di colori, stratificazioni di petali e corolle, fughe di tronchi e sentieri.

I nostri schemi mentali sono basati su un estetica razionale, e riluttanti ad apprezzare gli schemi caotici propri della Natura; “caos” in questo caso va inteso solamente nel senso visivo, perché dal punto di vista funzionale la Natura è decisamente antitetica al caos. Da tutto questo probabilmente nasce il malinteso che qualsiasi spazio verde (in senso lato) sia automaticamente buono e giusto, persino un campo da golf, tanto per citare una delle cose più “morte” che ci siano. Un equivoco basato su una percezione antropocentrica del paesaggio, che trasforma le sensazioni di “pelle” in valori e giudizi fuorvianti, che hanno assecondato negli anni l’impoverimento delle nostre ricchezze naturali.
Quante volte ci troviamo ad ammirare un bosco pulito dall’uomo pensando “sembra un giardino”? La foresta vergine, col suo disordinato sottobosco a tratti impenetrabile e i suoi tronchi marcescenti, appare invece ai più come una sgradevole cacofonia visuale, un luogo persino ostile. E le paludi, gli stagni? Luoghi maleodoranti e malarici, da spazzare via, un tempo. Ora invece, consci della loro importanza fondamentale per la vita, siamo in grado di apprezzarle e proteggerle proprio per la loro naturalità (cosa che, tristemente, non ne impedisce un rapido declino). C’è voluta una forte azione educatrice per farcene comprendere il valore.

Si può difendere un ambiente che non ci tocca immediatamente nell’animo? Lo si può poi rimpiangere quando scompare? C’è un innegabile divario tra ciò che ci piace vedere, che sentiamo più simile a noi, e ciò che è davvero importante. La sfida dovrebbe essere, per il fotografo che l’abbia a cuore, cercare di trasmettere un’immagine della Natura che la faccia apprezzare istintivamente, in quanto tale. Una sfida, lasciatemelo dire, davvero ardua.

Vitantonio Dell'Orto © 11/2005
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Pubblicato in "L'Arzigogolo" di dicembre 04, Oasis 158