IN VIAGGIO NELLO SPAZIO
La profondità nella foto di paesaggio

Nella foto noi non vediamo il soggetto, ma un'immagine del soggetto. Questa semplice frase, presa a prestito da un famoso fotografo, nasconde un universo di problematiche legate ai limiti della rappresentazione fotografica e alla sua distanza dal reale. In parole povere, non basta ritrarre qualcosa così come lo vediamo per ottenere in fotografia le stesse sensazioni, con lo stesso impatto. La trasposizione in immagini è un linguaggio visivo, e come tutti i linguaggi ha le sue regole e la sua grammatica; nel nostro caso parliamo di tecnica, cioè l'assieme degli strumenti stilistici utili a restituire compiutamente le sensazioni legate al soggetto.

La fotografia di paesaggio è al primo posto (ahimè) nell'ideale classifica delle situazioni difficili: a causa delle prospettive tridimensionali, essa rischia più di altre di penalizzare la forza spaziale del soggetto. Prima, davanti ai nostri occhi si parano scenari e proporzioni immense; nelle foto, dopo, immagini piatte e senza spessore. Si tende a cercare di riempire il fotogramma con tutto quello che si vede, e i risultati sono spesso deludenti. Per non parlare dei fattori esterni che sperimentiamo quando siamo in "location": profumi, luci, vento… tutte cose che inconsciamente incorporiamo nell'esperienza visiva diretta, ma che non entreranno mai negli angusti bordi della stampa bidimensionale che ne ricaveremo. Oltretutto la nostra vista è selettiva, vediamo una porzione di paesaggio per volta, mentre sulla fotografia tutto è colto nello stesso momento, e col medesimo sguardo. La profondità, in particolare, è il problema più grande. È lei che scava il solco tra un bel paesaggio, in senso classico, e la "cartolina", buona che sia, intesa come esecuzione tecnicamente perfetta dal risultato documentativo e non emotivamente toccante.

Nadir Magazine ©

Ad un primo piano forte è ancorato lo sviluppo diagonale del fiume

Il primo passo è "entrare" nel paesaggio, prendendo tempo, facendo le cose con calma. Occorre camminare, alzarsi e abbassarsi, cambiare il punto di vista; sedersi e guardarsi intorno, riflettere su ciò che si vede e sulle sensazioni che ci ispira. Chiedersi cosa ci colpisce, isolare questa emozione, e ragionare su come tradurla in immagine. Tanto più semplice e lineare è quello che vorremo comunicare tanto più direttamente arriverà nell'animo di chi osserva la foto. Tempo e linearità sono spesso le discriminanti tra una foto semplicemente buona, e una che dice qualcosa, e contano quanto l'uso dell'ottica adatta o della giusta composizione: bisogna che il paesaggio ci passi attraverso, per poterlo leggere.

Differenziare i piani visivi è il passaggio fondamentale per aumentare la sensazione di profondità. In poche parole, la tecnica ci aiuta ad "ingannare" il nostro cervello, aiutandolo a dare all'immagine finale una prospettiva che di per sé è assente. Si cerchi un primo piano importante, a cui ancorare lo svilupparsi del resto della composizione verso lo sfondo. Non deve essere avulso dal resto, ma coerente rispetto al racconto fotografico, un elemento tipico dell'ambiente... un fiore, ad esempio, laddove più in là avremo un prato in cui si intuiscono altri fiori simili e un paesaggio montano. Otteniamo così una reiterazione di elementi, dalla quale ricaviamo una forte sensazione di spazio. Il cervello umano, infatti, tende a completare le sequenze in modo autonomo. Siamo in grado di intuire forme poligonali anche quando il perimetro non è tracciato interamente, e allo stesso modo interpretiamo parole in cui solo inizio e fine siano corrette, anche se la parte centrale non ha alcun senso. Lo stesso meccanismo si applica alle immagini, anche se in senso meno visivo e più semantico. Per questo contrapporre soggetti uguali a distanze diverse aumenta la sensazione di tridimensionalità, in modo tanto più efficace quanto più siamo coscienti delle loro dimensioni reali.
Contrapponiamo, ad esempio, un albero ravvicinato ad un filare di alberi in secondo piano. La nostra mente interpreta il loro succedersi intuendo istintivamente un "dietro" e un "davanti", ricavandone così una sensazione di spazio altrimenti difficile da ottenere. Sullo sfondo mettiamo il contesto, la quinta, lo scenario. Da questo punto di vista l'inquadratura verticale si rivela utile, perché incorpora nell'immagine una maggior porzione di spazio lungo l'asse primo piano-sfondo. Un'altra tecnica consiste nel creare una "pista" visiva per far correre lo sguardo: la linea diagonale di un crinale, il corso di un ruscello, la riva di un lago… Teniamo presente che tendiamo per istinto a leggere le immagini (come i testi) da sinistra a destra; sarebbe più indicato inquadrare lo scorrere di un fiume, ad esempio, sempre in quel senso. Più in generale, le diagonali che si muovono da sinistra a destra vengono lette come un movimento di "venire verso", mentre quelle che si muovono in senso prospetticamente contrario rendono il movimento di "andare allontanandosi", influenzando diversamente il modo in cui lo sguardo andrà poi a cadere sugli elementi in fondo alla diagonale.

Anche la luce serve a distanziare i piani visivi, nonostante sia una situazione che si presenta raramente: una sequenza di colline, ad esempio, in cui le nuvole creino delle zone ombreggiate alternate a quelle illuminate. Più in generale, preferiamo la luce bassa e radente, che dona rilievo e corporeità al paesaggio, ne accentua i volumi e quindi l'ingombro e la prospettiva. Non inquadriamo mai la linea dell'orizzonte in modo che tagli l'immagine in due parti uguali: questo crea piattezza e staticità; il cielo, o la terra, deve occupare circa un terzo dell'immagine. Per lo stesso motivo, non metteremo mai il baricentro, il punto focale della composizione, al centro esatto dell'inquadratura, ma lo collocheremo su uno dei "terzi" della scena, per creare tensione ed equilibrio compositivo.

Vitantonio Dell'Orto © 11/2006
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Pubblicato su Oasis 161 "L'Angolo della tecnica"