ELOGIO DEL FUOCO MANUALE
Carlo Riggi, marzo 2010

Le dita esercitano una leggera ma volitiva pressione sulla ghiera zigrinata che, cedendo docilmente, fa sì che i piani si susseguano sul vetro smerigliato a svelare una per una le immagini contenute nella scena (un parallelepipedo definito in altezza e larghezza ma infinitamente profondo) da scomporre, studiare, scoprire, fino al gesto decisivo che la congelerà.

Mi sovviene una straordinaria foto di Mimmo Jodice: si vede Strombolicchio, il grande scoglio prospiciente l’isola di Stromboli, imponente sullo sfondo sotto il sole abbagliante, e una vasta distesa di mare in primo piano, piena di ondine e riflessi luccicanti. Il fuoco è su un punto del mare, mentre il faraglione – il soggetto - è una massa scura, ben riconoscibile ma completamente sfuocata. Geniale. Ogni volta che la riguardo, quella foto, penso alla distanza tra un grande maestro e la miriade di titillatori di fotocamere. Ma penso anche al fatto che quella foto, probabilmente, non sarebbe nata senza un apparecchio a fuoco manuale. Senza la possibilità, cioè, di indagare i singoli piani alla scoperta di foto inesistenti e forse neppure immaginate.
Ecco la differenza con l’autofocus. La velocità, certo, ma soprattutto la possibilità di cogliere l’imprevisto, di lasciarsi trascinare dallo sguardo nella scoperta di inedite configurazioni. Mentre l’AF realizza fulmineamente ciò che il fotografo ha già in testa, la MF consente di scoprire inattesi equilibri, nuove relazioni tra le masse e inedite ipotesi di senso.

Foto Carlo Riggi

Lasciar scivolare i vari piani sfuocando selettivamente gli elementi della scena, mirare lo sfondo, poi tornare indietro, studiare soggetti diversi e nuove interazioni. È il respiro della fotografia auscultato dall’interno del mirino, è compulsare l’immagine, concupirla, corteggiarla prima di sedurla o lasciarsi sedurre.

L’autofocus ha il merito di rendere più rapida la realizzazione dell’immagine che è già costituita nella mente. Ma se intendiamo la fotografia non soltanto come rappresentazione di idee ma anche come indagine, ricerca, disvelamento e espansione di significati celati, se le attribuiamo una funzione maieutica - dove però non vi è alcun maestro che ci aspetta sulla soglia di un sapere precostituito -, allora val la pena di concedersi in modo più rilassato al piacere dello sguardo, assumendo la croce e le delizie della messa a fuoco manuale.

Una pratica che richiede qualche accorgimento tecnico. Il primo è l’utilizzo di un buon vetrino smerigliato, poiché i vetrini di messa a fuoco in dotazione alle attuali reflex, luminosi e trasparenti, non sono idonei a rendere in maniera precisa lo stacco tra fuoco e fuori-fuoco e rendono incerta la discriminazione esatta del punto nitido. La seconda condizione è avere a disposizione obiettivi dotati di ghiere di messa a fuoco ben dimensionate, fluide e precise. Cosa che nelle moderne ottiche autofocus avviene solo con esemplari di fascia e prezzo elevati, e quasi mai con i movimenti progressivi e fluidi tipici delle migliori ottiche tradizionali. Con questi ausilii, si può affrontare la MF senza paura.

Foto Luca Rubbi

Un’ultima considerazione. Si sta diffondendo presso i fotoamatori più smaliziati l’abitudine di utilizzare vecchie e gloriose ottiche manuali sui nuovi corpi digitali, adattandoli con appositi anelli di raccordo. Questo fa sì di godere della straordinaria qualità di eccellenti ottiche classiche, reperibili sul mercato dell’usato a prezzi ragionevoli, coniugando le sensazioni di familiarità e solidità delle vecchie attrezzature con la funzionalità e la precisione dei moderni sistemi digitali. Tali accoppiate consentono di operare con esposizione manuale o automatica a priorità di diaframma, ma costringono a lavorare in stop-down, cioè con l’obiettivo regolato sull’effettiva apertura di lavoro. Questo rappresenta indubbiamente una scomodità, ma meno penalizzante di quanto si creda. Se è vero, infatti, che l’oscuramento del mirino comporta una maggiore difficoltà di visione, e quindi di composizione e messa a fuoco, è vero pure che questo oscuramento avviene sempre in maniera proporzionale alla luce presente nella scena. Un diaframma molto chiuso lo si userà prevalentemente in pieno sole, dove la luminosità del contesto compensa ampiamente il parziale oscuramento del mirino.

In condizioni di scarsa luminosità invece, o al chiuso, si utilizzeranno giocoforza i diaframmi più aperti, e la situazione non sarà molto diversa rispetto ad un sistema con simulatore di diaframma. A meno di non utilizzare il cavalletto, ma lì i problemi si azzerano, potendo focheggiare e comporre tranquillamente a tutta apertura e chiudendo il diaframma solo al momento dello scatto. L’oscuramento del mirino, inoltre, costituirà un’indicazione intuitiva sul tempo di posa, quando si scatta in automatico e la visibilità del display, come capita in molte reflex attuali, non è sempre agevole. Un’immagine troppo scura nel mirino significa, con ogni probabilità, avere un tempo molto lento e a rischio di mosso. Pian piano si stabiliscono degli automatismi mentali infallibili, specie lì dove il fotografo usi in prevalenza la stessa sensibilità ISO.

Come avveniva una volta, quando i bravi reporter avevano “introiettato” la Tri-x e esponevano d’istinto, avendo sviluppato una specie di “occhio assoluto” in grado di valutare immediatamente l’intensità della luce. Ecco, lo stop-down è quanto di più prossimo a quella condizione di contatto spontaneo con la luce, e alla sua libera interpretazione, che si realizzava prima del diffondersi dell’esposimetro. Offrendo pure, come è ovvio, la possibilità di visualizzare costantemente, sia pur in modo approssimativo, la profondità di campo effettiva. Ciò che chiude il cerchio col tema della messa a fuoco e dello studio del fotogramma nel mirino, costituendo il contesto nel quale l’atto fotografico può continuare ad essere quel mix di consapevolezza, emozione e passione che lo nobilita e lo rende unico.
Flirtare con la luce è ancora possibile, anche nell’epoca della totale automazione.

Carlo Riggi © 03/2010
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Foto Sergio Iovisolo