Il racconto finisce con una scarpa appesa alle sbarre, a metà tra il dentro e il fuori. È un finale aperto, libero di andare per la sua strada nella mente del fruitore. Ciascuno libero di immaginarlo a modo proprio. Ciascuno come sa, o come può.
Ho approfittato della squisita disponibilità di Valerio, appena rientrato in Italia per le festività natalizie, per fare con lui una piacevole chiacchierata.
Sei del '71, quindi hai vissuto la giovinezza in un periodo generalmente considerato di "riflusso" e di disimpegno sociale. Cos'è che ti ha spinto a occuparti delle periferie del mondo, delle disuguaglianze, delle ingiustizie?
Ho sempre avuto la voglia di indagare, di viaggiare e di scoprire. La svolta è avvenuta nel 2000, quando un amico giornalista mi ha proposto di accompagnarlo in un reportage in Sudamerica. Durò quattro mesi e mezzo e fu per me un viaggio iniziatico. Allora fotografavo per passione, ma al ritorno decisi che avrei fatto il fotoreporter, e che sarei tornato in quei luoghi per capire meglio quella realtà così complessa che avevo appena iniziato a conoscere.
Quanto c’è di te nelle tue fotografie?
Credo che sia inevitabile ritrovare un po’ di se stessi nella propria ricerca, ma penso che questo risvolto sia inconscio. Io fotografo per indagare, cercando sempre la profondità. Non mi propongo di fare foto d’arte, l’estetica è importante, ma dev’essere funzionale al messaggio, non è la priorità. Un’indagine di questo tipo richiede sempre per forza di cose di immedesimarsi nelle situazioni raccontate, ma non è una cosa voluta.
Encerrados è impreziosito dai testi di due straordinari scrittori come Roberto Saviano e Eduardo Galeano. Sei per la fotografia che parla da sola, o credi nella sinergia tra immagine e parola?
I testi di Saviano e Galeano introducono il libro, ma io credo che la fotografia debba parlare da sola, senza testi o spiegazioni, e senza didascalie.
Ci racconti com'è andata nel famoso Padiglione 5 del carcere di Mendoza?
Il Padiglione 5 ospitava i detenuti ritenuti più pericolosi, le autorità mi avevano vivamente sconsigliato di entrarci. Io ho insistito e alla fine il Direttore del carcere mi ha dato l’autorizzazione, ma declinando qualunque responsabilità.
All’inizio è stato difficile, quelle persone mi guardavano con curiosità, con diffidenza, ma poi hanno raccolto la sfida, sono riuscito a coinvolgerli nel progetto, hanno capito, si è stabilita una complicità e mi hanno aiutato a mostrare al mondo le loro disumane condizioni di vita. Da quelle foto poi, grazie ad Amnesty International ed altri, è nata una mostra dalla cui eco è scaturito un movimento di opinione pubblica che ha portato alla chiusura di quel padiglione.
Non ho avuto modo di rincontrare quei detenuti, erano passati degli anni, e non so neppure se si siano resi conto del fatto che quella loro disponibilità a farsi riprendere aveva portato a questo risultato - molto spesso i detenuti vengono trasferiti senza neanche una spiegazione -, ma è stata una dimostrazione di come la fotografia abbia il potere di cambiare le cose. Non sempre, e non da sola, ma qualche volta sì.
Che attrezzatura fotografica hai usato per questo reportage?
Quando ho iniziato non c’era ancora il digitale, avevo una Leica M6 con un 28/2,8. Più avanti ho cominciato a usare il sensore, ma sempre affiancandogli la pellicola, visto che avevo iniziato in quel modo. Ho usato sempre reflex Canon, prima la 20D, poi la 5D, Mark II e Mark III. Le ottiche vanno dal 24 al 35, con una preferenza per il 24/1,4. Le ottiche grandangolari sono per me la condicio sine qua non, non potrei concepire il reportage senza il grandangolare.
Il lavoro sul "Paco" (la “droga dei poveri”, una terribile sostanza che sta devastando un’intera generazione nei sobborghi sudamericani) lo hai condotto a colori. Da cosa è dettata questa diversa scelta stilistica?
Me lo chiedono in tanti. Non è una scelta premeditata. Per Encerrados sì, quei luoghi avrei potuto fotografarli solo in bianco e nero: in carcere gli occhi sono grigi.
Per il resto, mi lascio condurre dalle sensazioni del momento, ci sono situazioni che sento a colori. Quella del “Paco” è venuta fuori così, con questi colori molto saturi. Ho seguito l’istinto.
Il crowdfunding è andato alla grande per Encerrados. La mia sensazione è che queste iniziative funzionino bene quando, come in questo caso, al valore artistico si accompagni un riconoscibile valore sociale.
Non è stato facile, ma sì, credo che sia vero, quando c’è una forte motivazione sociale si determina una rete di solidarietà. È stata una bella esperienza. Per il momento, comunque, non penso di ripeterla per altri progetti.
Su cosa stai lavorando adesso?
Ho diversi progetti in corso, uno sul mondo “lesbo”, un altro sul mondo dei sordi.
Entrambi ambientati in Sudamerica.
Quello che m’interessa, e che cerco di trasmettere agli allievi durante i miei workshop, è mettere impegno in ogni scatto, sia nelle situazioni professionali che nelle fotografie più amatoriali, cercando sempre la profondità, il racconto, la voglia di conoscere e indagare.
Terminiamo la conversazione condividendo questo richiamo alla responsabilità nel mettere al mondo un’immagine. D’altronde, Encerrados è la prova, in positivo, di quanto la fotografia possa concretamente influenzare la vita delle persone.
Il libro, edito da Contrasto, sarà in libreria a partire dal prossimo 29 gennaio 2015.
Valerio ha in programma molte presentazioni in giro per l’Italia. Sarà l’occasione per conoscere un’ottima persona, oltre che un grande fotografo.
Carlo Riggi © 01/2015
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