Dall'utilizzo della fotografia nella propaganda politica all'epica sociale di Salgado, dalle rivelazioni intime della Woodman alla frenesia mediale seguita ai tragici eventi dell'11 settembre... Un libro per non rinunciare alla nostra capacità di comprensione.
A che punto è la fotografia oggi? Cos'è diventata nell'epoca di Internet? Come la usano gli artisti e come la sfruttano i media? Tre domande cruciali che, dalla quarta di copertina, ci introducono alla lettura di questa raccolta di saggi brevi, da poco pubblicata in traduzione italiana dall'editore Postmediabooks.
L'innocenza della fotografia è un mito che ha avuto vita assai breve. E' bastato relativamente poco tempo perché ci si rendesse conto di quanto "malleabile" fosse il medium fotografico, docile come argilla umida nelle mani di chi necessitava di veicolare un determinato messaggio, pronta ad assecondarne colposi soggettivismi come consapevoli menzogne, incapace di discernere tra buona e mala fede.
Ironia della sorte, tale presa di coscienza si è accompagnata alla crescita esponenziale della presenza ed influenza dell'immagine fotografica nella società, fino ad arrivare alle ragguardevoli vette del nostro presente. Osserva a tal proposito Levi Strauss: «All'inizio pensavo che un numero più grande di persone che realizzano immagini avrebbe certamente portato ad una ricezione più consapevole delle stesse, ma ora non ne sono tanto sicuro. Sembra sia possibile fare foto in maniera altrettanto inconscia di come le consumiamo, evitando del tutto qualunque dimensione critica»; scopo dei saggi raccolti in questo libro è proprio quello di salvaguardare quella sacrosanta "dimensione critica" (quel pungolo che non dovremmo mai permettere ci abbandonasse, come un irritante ma provvidenziale Grillo Parlante), spronando il lettore - considerato soprattutto in veste di fruitore, quando non addirittura creatore, di immagini - a preservare ed auspicabilmente aumentare la propria consapevolezza circa il reale funzionamento delle immagini nella società contemporanea. Nonostante l'ambiguità della fotografia sia un dato ormai assodato, talvolta le sofisticazioni a cui è sottoposta risultano talmente sottili da passare facilmente inosservate.
Fu per ovvi motivi, dunque, che macchina politica e "ragion di Stato" dovettero ben presto fare i conti con le enormi potenzialità persuasive
della fotografia, fino ad impiegarla come una sorta di artiglieria al servizio delle verità prestabilite. Percorrendo a ritroso la storia della fotografia in cerca di un plausibile antenato di questo status quo, ci spingiamo fino a quel 1855 a cui per convenzione si fa risalire l'atto di nascita della fotografia di guerra: il fotografo inglese Roger Fenton fu inviato dalla Corona in Crimea allo scopo di dissipare i timori della popolazione circa la situazione delle truppe britanniche schierate al fronte; le circa 300 immagini del suo reportage raccontano una guerra paradossalmente ordinata e quieta, in cui uomini e cose, finanche la morte stessa, hanno ancora il tempo e la voglia di mettersi educatamente in posa per non urtare la sensibilità di coloro ai quali tali immagini sono destinate. Una bugia che fece il giro d'Inghilterra per mezzo di una tournée di esposizioni, e che contribuì a decretare quella verità inconfutabile che ben esprime il regista Wim Wenders con queste poche parole: «La decisione più politica che possa esser presa è dove dirigere gli occhi della gente» (la frase, citata da Levi Strauss, è tratta dal libro L'atto di vedere di Wenders).
L'autore
David Levi Strauss è nato in Kansas nel 1953. E' considerato uno dei più grandi teorici della fotografia. Ha scritto per le monografie di numerosi artisti, tra le quali spicca la collaborazione con Alfredo Jaar all'installazione per Documenta 11. Scrive regolarmente per le riviste Artforum, Aperture e The Nation. Per l'impegno e la chiarezza intellettuale dei suoi numerosi saggi è stato premiato con il Guggenheim Foundation Fellowship, l'Infinity Award e dal Center for Creative Photography. Insegna al Bard College di Annandale-on-Hudson. Dal 2007 è responsabile del dipartimento di Teoria e critica d'arte della School of Visual Arts di New York.
Tornando ai giorni nostri, è inevitabile che le cose si siano complicate, di pari passo con l'esplorazione e il valico sistematici dei limiti dell'espressione fotografica. Ben vengano dunque le parole di Levi Strauss, dirette e chiare, che, come afferma John Berger nell'introduzione, «si avvicinano al non-detto; un non-detto che ha poco da spartire con il mistero dell'arte e molto a che fare con il mistero di innumerevoli vite vissute». Le vite, per esempio, dei fotoreporter Cross e Hoagland, uccisi negli anni Ottanta in America Latina: nel saggio ad essi dedicato Levi Strauss ci guida nell'interpretazione dell'(ab)uso che i media fecero delle loro immagini, attraverso la lettura contestuale di alcune copertine e pagine di importanti testate giornalistiche in cui l'informazione si trasforma non di rado in "merce tra le merci", asfissiata dallo spettacolo anestetizzante del consumismo che si svolge attorno ad esse sottoforma di pubblicità; un saggio che ci mette in guardia circa la sbandierata "obiettività" dei mass media, affetta in realtà da una genetica inclinazione verso la propaganda all'ideologia dominante e capace di distorcere a piacimento ogni significato originario in maniera sempre più abile e di conseguenza invisibile, a cui siamo sempre più assuefatti.
Ma le vite prese in considerazione da Levi Strauss sono anche altre, come quelle di fotografi-artisti quali Witkin o la Woodman, le cui immagini, in quanto a loro modo "sovversive", divengono automaticamente passibili di un'interpretazione politicamente connotata (pur nell'accezione più ampia del termine); o le vite interrotte delle vittime dell'attacco alle Twin Towers, insieme a quelle dei fotografi, professionisti od improvvisati tali, che contribuirono a rendere l'11 settembre uno degli eventi più mediali di sempre: di fronte all'impossibilità di sopportare la realtà, preferiamo la distanza irreale delle immagini per confrontarci con il mondo (una curiosità significativa: l'11 settembre 2001, per la prima ed unica volta nella storia di internet, la ricerca di immagini di cronaca superò quella di immagini pornografiche; voyeurismo morboso o impellenza informativa?).
In un altro saggio, infine, si riflette sulla legittimità dell'estetizzazione dell'immagine documentaria, prendendo ad esempio l'emblematica ed "epica" produzione di Salgado: è moralmente lecito perseguire la bellezza fotografando la tragedia? Estetizzare il reale significa anestetizzare i sentimenti, spingendo alla contemplazione invece che all'indignazione e dunque all'azione?, significa ridurre il dolore del mondo a merce di consumo? O non è forse che l'estetizzazione va di pari passo con la trasformazione propria di ogni forma di rappresentazione e comunicazione? Non sarà forse garanzia, al contrario, di una fotografia ancor più "autentica"?
Sono tanti gli interrogativi altrettanto risolutivi che Levi Strauss dissemina tra le pagine di questo libro, talvolta suggerendo con convinzione delle risposte, talaltra lasciando la domanda in balìa della riflessione critica di ognuno; certo che, anche nei casi in cui l'argomento rimanga sospeso, sarà comunque buona cosa averlo sollevato, in quanto «dove c'è calore capita che ci sia anche luce».
Nora Dal Monte © 01/2008
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