MACRO IN GRANDE FORMATO |
Riempire un fotogramma di 24x36 millimetri non è poi così difficile. Il difficile è farlo quando le dimensioni del negativo aumentano. Allora quello che per una reflex poteva essere niente più che un facile close-up diventa macrofotografia spinta. Che richiede più tempo, più conoscenze, più calcoli e... |
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Osservate la prima fotografia in alto. Raffigura un gruppo di pannocchie di granturco riprese da vicino. Se avessi voluto scattare questa fotografia con una macchina di piccolo formato, mi sarebbe forse bastato utilizzare l'obiettivo normale alla minima distanza di messa a fuoco. Invece ho utilizzato un banco ottico Sinar con dorso da 4x5 pollici (10x12 cm), il che mi ha richiesto di mettere in campo sofisticate tecniche di ripresa macro. Perché questa differenza? Per capirlo, bisogna rifarsi al concetto di rapporto di riproduzione. Il rapporto di riproduzione (detto anche rapporto di ingrandimento) è il rapporto esistente tra le dimensioni dell'immagine sul fotogramma e le dimensioni reali del soggetto. Essendo un rapporto, si esprime con il segno della divisione, cioè i due punti (:) o lo slash (/). Quando le dimensioni dell'immagine sul fotogramma sono uguali a quelle del soggetto, si dice che il rapporto di riproduzione è di uno a uno (1:1). Se le dimensioni dell'immagine sul fotogramma sono la metà di quelle del soggetto, si dice che il rapporto di riproduzione è di 1:2 e così via. Il valore del rapporto di riproduzione (R) si può anche esprimere con il risultato finale della divisione, per cui nel primo caso si potrà scrivere anche R=1 e nel secondo R=0,5. Al di sopra del rapporto di riproduzione di 1:1 (R=1) si entra nel regno della vera macrofotografia (prima possiamo parlare genericamente di fotografia ravvicinata o close-up): una linea di confine non simbolica oltre la quale molte delle regole consuete vengono stravolte. Ad esempio, a mano a mano che si supera il rapporto di 1:1, la distanza obiettivo-pellicola diventa proporzionalmente maggiore della distanza obiettivo-soggetto, rendendo necessario capovolgere l'ottica per aumentarne le prestazioni (o piuttosto per ripristinare le condizioni normali di esercizio per le quali l'ottica è stata progettata). Il valore R=1, che i francesi chiamano grandeur nature, non è legato al formato del fotogramma, ma semplicemente alle dimensioni dell'immagine in rapporto alle dimensioni del soggetto. La corolla di un fiore del diametro di 3 centimetri fotografata secondo il rapporto di riproduzione di 1:1 apparirà larga 3 centimetri sia su un fotogramma 24x36 mm che su una lastra 13x18 cm. Che cosa cambia, allora? Cambia l'ingrandimento apparente dell'immagine rispetto al fotogramma. Nel primo caso (piccolo formato) l'immagine del fiorellino riempie il fotogramma, nel secondo caso (grande formato) certamente no. Se si ricava dai due negativi una stampa di 13x18 cm, nel primo caso otterremo davvero l'immagine ravvicinata e fortemente ingrandita della corolla (perché il fotogramma 24x36 sarà stato fortemente ingrandito), nel secondo caso no, perché sarà stata fatta una semplice stampa per contatto e il fiore ci apparirà in grandezza naturale. Come fare quando si desidera riempire il fotogramma anche con i formati maggiori? Evidentemente la soluzione consiste nel superare il rapporto di 1:1. Ma questo trascina inevitabilmente con sé tutta una serie di problemi la cui soluzione richiede di saper applicare ben precise nozioni. Il primo problema, già segnalato, consiste nel fatto che quando si supera il rapporto di 1:1 l'obiettivo finisce per trovarsi più vicino al soggetto che al piano focale. L'inversione dei gruppi (il gruppo anteriore diventa gruppo posteriore e viceversa) rimedia all'inevitabile decadimento della qualità ottica che questo comporta. La procedura è in parte evitabile ricorrendo agli schemi simmetrici (assolutamente simmetrici), nei quali il gruppo anteriore e quello posteriore non differiscono in nulla. Nel grande formato (come del resto nei formati inferiori) esistono obiettivi appositamente progettati per le riprese ravvicinate, ottimizzati (come gli Schneider G-Claron) per una ben precisa gamma di rapporti di riproduzione: nel caso dei G-Claron la gamma si estende da 1:5 a 5:1. Questo non significa che simili obiettivi non possano essere usati all'infinito, ma che all'infinito le loro prestazioni potranno risultare meno brillanti. Nulla di diverso da quanto accade agli obiettivi macro per il piccolo formato. Le fotografie che illustrano questo articolo sono state fatte utilizzando uno Schneider Super-Angulon 90 mm f/8, uno Schneider Apo-Symmar 180 mm f/5,6 e uno Schneider G-Claron 150 mm f/9. Il secondo problema consiste nella inevitabile caduta di luce che l'aumento del valore di R comporta e che dipende dal rapporto tra la lunghezza focale dell'obiettivo e il tiraggio (cioè l'allungamento del soffietto). La seconda immagine (la ripresa ravvicinata di una pigna) ha richiesto, sul formato 4x5", un rapporto di riproduzione di 3:1. Con l'obiettivo da 180 mm avrei potuto mantenere una buona distanza dal soggetto, ma il tiraggio sarebbe stato pari a 72 centimetri! Sarebbero state necessarie almeno due prolunghe di banco e due soffietti normali collegati insieme. Io possiedo due prolunghe di banco, ma di soffietti ne ho uno solo (il soffietto grandangolare, anche se unito a quello standard, non sarebbe bastato). Ho optato così per una focale grandangolare, il Super-Angulon da 90 mm, il che mi avrebbe consentito di allungare il soffietto di "soli" 36 centimetri. |
Un rapporto di riproduzione così elevato ha implicato a sua volta un fattore di posa pari a 16. In pratica, il diaframma impostato (f/64) andava calcolato come se fosse più chiuso di quattro valori (f/256). Questi calcoli sono indispensabili per valutare la corretta esposizione, evidentemente diversa da quella che può essere suggerita da un esposimetro esterno, per quanto sofisticato sia. Un ulteriore problema da affrontare consiste nella ridotta distanza fra l'obiettivo e il soggetto. Al rapporto di riproduzione di 3:1 la distanza dal centro ottico dell'obiettivo al soggetto era di soli 12 centimetri. Questo significa che la distanza della lente frontale dal soggetto era ancora inferiore: infatti in questo obiettivo la distanza tra il piano del diaframma e la lente frontale è di circa tre centimetri e mezzo. A questo aggiungete un paio di centimetri di paraluce e avrete che la distanza tra l'elemento più avanzato dell'obiettivo e il soggetto era di soli sei centimetri e mezzo. A questo punto la scelta e la disposizione delle luci diventa una faccenda dannatamente complicata! In particolare questa fotografia è stata realizzata facendo ricorso a un'unica fonte di luce continua, orientata in modo da fornire un'illuminazione radente capace di mettere in risalto - mediante un opportuno gioco di luci e ombre - la tridimensionalità delle scaglie. Ovviamente occorreva impostare un diaframma molto chiuso, allo scopo di mantenere ragionevolmente a fuoco tanto il centro quanto i bordi: a causa della rotondità della pigna l'area inquadrata rischiava di uscire dalla zona di campo nitido. Per cui non avevo scelta: l'apertura relativa sarebbe stata la più piccola consentita dall'obiettivo: f/64. Questo imponeva un tempo di esposizione molto lungo, che sarebbe stato ulteriormente esteso per compensare il difetto di reciprocità. Fatti i conti, l'esposizione sarebbe durata non meno di mezz'ora. Per quanto si effettuino calcoli, è sempre consigliabile scattare una Polaroid di prova, sia quando si lavora in luce lampo (i cui effetti finali sono in parte imprevedibili), sia quando si lavora in luce continua. In quest'ultimo caso, bisogna ricordarsi di compensare il difetto di reciprocità, diverso da emulsione a emulsione. Le ultime due immagini raffigurano delle incisioni su legno provenienti dalla Valle d'Aosta. La prima è uno stampo da burro, la seconda una decorazione tradizionale su un contenitore per il sale. Il rapporto di riproduzione non è elevato per nessuna delle due immagini, non superando il valore di 1,5:1. Nella seconda immagine (la decorazione tradizionale) è stata usata la luce naturale proveniente da una finestra per creare un effetto digradante fra la parte illuminata e la parte in ombra. L'angolazione della luce, quasi radente, mette in risalto la tridimensionalità dell'intaglio. Come concludere? Certo, la macrofotografia in grande formato è un'avventura non facile, ma è anche un'avventura entusiasmante. Provare, sbagliare, sciupare inevitabilmente del materiale e riprovare ancora fa parte del gioco, così come la voglia di sperimentare che caratterizza in modo così peculiare lo spirito umano, e segna in particolare il modo di essere del fotografo creativo. Michele Vacchiano © 5/2001 |