ARTE E OMOSESSUALITA'
Serena Effe, novembre 2007

220 opere (in gran parte fotografie), 150 importanti nomi dell'arte italiana e internazionale riuniti con l'intento di indagare la nascita e lo sviluppo di una "estetica omosessuale consapevole". La mostra, tra le più provocatorie e dibattute degli ultimi anni, è finalmente visitabile - e "giudicabile" - a Firenze (Palazzina Reale, stazione di Santa Maria Novella) fino a gennaio 2008.

Il binomio arte-omosessualità non può certo dirsi inedito (dalla pittura vascolare dell'Antica Grecia in giù, passando per Leonardo e Michelangelo, giusto per citare i primi due "grandi" che mi vengono in mente), e tantomeno quello arte-provocazione (tanto che il concetto di "provocazione" rischia di divenire sinonimo esclusivo dell'intera arte contemporanea…): ciò nonostante, l'esperienza di questi ultimi mesi ci insegna che, messi programmaticamente insieme, questi due assunti sono in grado di provocare un cortocircuito senza pari, di cui ci accingiamo a ripercorrere brevemente le mirabolanti sorti.

Eccola qui, l'opera più discussa e vituperata dell'altrettanto discussa e vituperata mostra "Arte e Omosessualità", che porta la firma di Vittorio Sgarbi e del giovane curatore napoletano Eugenio Viola: niente di meno che un papa Benedetto XVI in versione omosex - autoreggenti, lunghi capelli bianchi tenuti a posto da una leziosa mollettina rosa e un sorrisetto malizioso - ribattezzato per l'occasione col nome di battaglia di "Miss Kitty". Opera censurata, accusata di blasfemìa e di immoralità, prima vietata, poi camuffata con una mascherina nera che mimetizzasse i fin troppo riconoscibili tratti del volto (col risultato di renderla invece ancor più "scandalosa" a causa dell'allusione a pratiche sadomasochiste), infine occultata in una nicchia pudicamente celata da una tenda bianca che il visitatore può decidere se scostare o meno, a suo rischio e pericolo.

Un'opera simbolo di una vicenda espositiva che ha dell'incredibile, e che risulta ben più stravagante e ignominiosa della mostra stessa: osteggiata fin dal primo annuncio, l'esposizione ha infatti attraversato mesi di incertezze e di minacce di censura, divenendo prima un caso di costume e moralità, poi, inevitabilmente, anche un "caso politico". Da una parte Sgarbi e la schiera di organizzatori, dall'altra la giunta comunale milanese (perché a Milano doveva essere inizialmente allestita) e lo stesso sindaco Letizia Moratti, "rea" di aver preteso di visionare ogni opera per decidere se accordare o meno il nulla osta all'iniziativa. Alla fine, il nulla osta non c'è stato: dopo l'inaugurazione ufficiale a Palazzo della Ragione, la mostra è stata investita da un vero e proprio "Vade retro" (destino beffardo: "Vade retro" era anche il titolo inizialmente scelto per l'evento) che l'ha costretta a chiudere i battenti e a cercare asilo altrove, fino a trovarlo in quel di Firenze.

Ora, viene spontaneo chiedersi: da quando in qua un sindaco ha il potere di porre un veto insindacabile nei confronti dell'espressione artistica? Si fosse trattato di un'esposizione finanziata con denaro pubblico (o esposta per strada, senza che i cittadini avessero modo di scegliere se vederla o meno, come nel caso altrettanto celebre dell'opera di Maurizio Cattelan composta da fantocci-bambini appesi per il collo ai rami di un albero, prontamente rimossi) la cosa avrebbe avuto un suo più plausibile perché: ma essendo totalmente frutto di iniziativa privata, ed essendo allestita in un luogo chiuso e soggetta al pagamento di un biglietto, non c'è scusa che tenga. Sono nient'altro che provocazioni, certo, quelle di chi ha tirato in ballo la censura fascista e sovietica nei confronti dell'arte: ma, anche se in misura infinitamente meno preoccupante, è certo che il colpo inflitto alla libertà d'espressione è stato comunque degno di nota.

Difficile trovarsi d'accordo con l'egocentrismo esibizionista e sopra le righe di Sgarbi, non c'è dubbio; ma qualcosa su cui meditare, in queste sue parole, c'è: «Può una città laica e democratica essere messa sotto tutela estetica ed etica? Può un sindaco preoccuparsi di salvare l'anima dei suoi cittadini? Può applicare il suo gusto, la sua morale alle funzioni civiche e democratiche? (…) Non ha senso imporre una decisione politica sulla base della sensibilità e del pensiero personale su cosa sia o non sia arte, pretendendo di difendere i cittadini come se non fossero in grado di difendersi da soli (…) Meditino Monsignor Maggiolini, Angelo Crespi, Letizia Moratti (alcuni tra i maggiori oppositori di Sgarbi, ndr) sulle opere di Luca Signorelli, di Hyeronimus Bosch, di Pier Paolo Pasolini. E poi mi dicano se non è un peccato di superbia pretendere di porsi, rispetto all'arte, nel punto di vista di Dio».
Ben venga un'autorità che vigila sul benessere dei cittadini, sull'efficienza dei servizi per i quali paga le tasse, sulla sicurezza personale. Ma "vade retro", senza se né ma, se quella stessa autorità si arroga il diritto di "vigilare" sulla mia "anima" - per dirla con l'enfasi di Sgarbi -, decidendo cosa devo o non devo osservare, leggere, ascoltare. Insomma, il parere di chi scrive è che questa mostra dovesse assolutamente esser fatta, non fosse altro che per una questione "di principio" che mi auguro la riflessione appena svolta abbia sufficientemente chiarito.

Argomentazioni astratte esaurite, infine, ci troviamo a fare i conti con le opere esposte, finalmente svelate ai nostri "indifesi" (così dicono) sguardi di visitatori allettati e incuriositi da tanto scalpore. E qui vengono le note dolenti: nonostante le buone intenzioni - «la mostra Vade Retro si propone di documentare, a partire dalla nascita della fotografia, i caratteri di un'estetica omosessuale consapevole» attraverso lavori a firma di autori dichiaratamente omosessuali o che alludano, anche simbolicamente, all'omosessualità - il risultato non è dei più convincenti, e arriva spesso e volentieri a lambire i territori del pessimo gusto. E non mi riferisco certo alla tematica in sé (se così fosse, tutto quanto scritto finora non avrebbe alcun senso); parlo della qualità intrinseca dei lavori esposti, della loro (in)capacità di guidarci nella comprensione del tema in gioco.

Sarà forse l'effetto collaterale di un'organizzazione eccessivamente tesa a "scandalizzare" l'opinione pubblica, ad épater les bourgeoises (tipica occupazione sgarbiana, d'altronde) piuttosto che a dar vita ad un percorso organico ed ermeneutico convincente; fatto sta che il risultato solleva molte perplessità. La mostra, composta da opere di pittura, scultura e fotografia (quest'ultima la fa da padrone) appare dispersiva e di spessore non eccelso - per non dire, in certi casi, inappellabilmente scadente, soprattutto per quanto riguarda la pittura -, nonostante siano presenti numerosi tra i più influenti nomi dell'arte internazionale; ma si sa - o almeno: sarebbe buona cosa esserne sempre consci; il "timore reverenziale" nei confronti dei nomi più celebri finisce spesso per annebbiare la nostra capacità di giudizio -: un "buon nome" non è necessariamente garanzia di un altrettanto "buona opera" (un esempio per tutti: le due foto di Helmut Newton e di Nan Goldin sono, a mio avviso, del tutto inutili e prive di interesse, nonostante le ottime credenziali).

Ma quel che è peggio è che, nel complesso, l'esposizione finisce per veicolare un messaggio assolutamente parziale e pericolosamente fuorviante: focalizzando l'attenzione in maniera quasi esclusiva sull'esibizionismo sessuale, le opere esposte sembrano mettercela davvero tutta per far emergere un concetto di omosessualità intesa quale "vizio perverso", tralasciando o mortificando ogni altro aspetto, ogni altra sfumatura, ogni altra argomentazione che vada oltre la consumazione dell'atto sessuale. Un tema così delicato e complesso avrebbe meritato una maggiore accortezza e almeno un baluginare di sensibilità ulteriore.
Come già accennato, il mezzo fotografico risulta numericamente il più "forte", e se ne fanno ambasciatori nomi quali Bruce Weber, Robert Mapplethorpe, Terry Richardson, Timothy Greenfield-Sanders, Dino Pedriali, Bruce of Los Angeles, David Hockney, Yasumasa Morimura, Herb Ritts, Joel-Peter Witkin, David LaChapelle… per la maggior parte presenti con un'unica immagine ciascuno.
Ad esser sinceri, è proprio qui che incontriamo alcune (se non tutte) tra le opere più interessanti: la bella immagine del barone Von Gloeden, per esempio, che, trasferitosi per motivi di salute a Taormina agli inizi del Novecento, vi rimase tutta la vita, dedicandosi a fotografare le nudità esuberanti di vita e di rozza sensualità di giovinetti siciliani, ritratti a mo' di inconsapevoli dèi di un'età arcadica, ricreata per l'occasione con pochi mezzi (un tappeto, una pelle di leopardo, leggere tuniche bianche e coroncine di alloro); la sua opera, in tempi più recenti, si guadagnò lo sdegno fascista, che distrusse gran parte della sua produzione di lastre fotografiche.
O uno degli statuari nudi di Mapplethorpe, tecnicamente ineccepibile e freddamente composto quanto al contempo prorompentemente erotico; o, ancora, la visionaria esuberanza kitsch del ritratto di LaChapelle ad Elton John, divertente e divertito, ironico e chiassosamente glamour.

Concludo rivolgendomi a quei lettori che, arrivati a questo punto, penseranno magari che non valga la pena tentare una visita a questa mostra. Niente di più errato, per due semplici ma fondamentali motivi che qui mi piace ricordare. Il primo: mai accontentarsi del giudizio altrui (in questo caso il mio. Quindi: diffidate delle recensioni, e consideratele sempre e solo come punti di vista con cui dialogare in totale autonomia); il secondo: non sempre una mostra che ci appaghi in pieno è più auspicabile di una che non ci convinca pienamente; comprendere il perché di una perplessità è assai più proficuo e stimolante del prendere atto di un godimento. E questa mostra è una vera e propria miniera di titubanze, prodiga di spunti di riflessione non solo per quanto concerne l'omosessualità, ma anche circa lo stato dell'arte contemporanea - fotografia in primis -, e, non ultimo, intorno alla strisciante propensione ad un certo tipo di "abuso di potere" su cui vale davvero la pena meditare.

Serena Effe © 11/2007
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