MANTOVA
DI LAGHI, DI CIELI, DI ARTISTI GENIALI
Serena Effe, settembre 2006

Può capitare che un importante evento d'arte ci porti a scoprire città che avevamo trascurato. E' il caso di Mantova: piccola ma ricchissima sorpresa, illuminata a festa dalle celebrazioni dedicate al Mantegna.

La "M" di Mantegna campeggia un po' ovunque nella città, in occasione delle celebrazioni per il cinquecentenario della morte. Qui arreda Piazza Mantegna (per l'appunto!), davanti alla chiesa di Sant'Andrea.

L'oculo della Camera Picta del Mantegna (detta anche "degli Sposi"): capolavoro di illusionismo prospettico e fantasia.

Mantova è troppo vicina all'Emilia Romagna per non essere anch'essa "città di portici"

Sant'Andrea, progettata da Leon Battista Alberti, custodisce nella cripta le urne che, secondo la leggenda, contengono ancora la reliquia del Preziosissimo Sangue.

Lorenzo Leonbruno, Natività (in prestito da Tokyo). Una perla di spontaneità, la scenetta dei due pastori sullo sfondo che commentano tra loro l'evento, sùbito redarguiti ùsilenziosa attenzione.

Andrea Mantegna, Sacrificio di Isacco (da Vienna). Bellissimo "grisaille" su tavola.

Andrea Mantegna, Sacra Famiglia con Sant'Elisabetta e San Giovannino (da Dresda). Il volto di vecchio "stacca" dal resto della composizione e ruba la scena al Bambino, col suo realismo quasi fotografico e il suo sguardo fisso e penetrante. Anche questo è segno inequivocabile del "pagano" dell'arte del Mantegna.

Mantova ha due cieli.
Uno, quello reale, quello di tutti, quello mutevole, quello "normale". E fin qui, niente di speciale, direte voi.
Ma c'è un angolo in questa città - nascosto, appartato, rinchiuso in una torre come una principessa di cui convenga esser gelosi - che custodisce un altro cielo.
E' un cielo ideale, questo, sereno da più di 500 anni, trascinato in una stanzetta angusta grazie alla fantasia di un artista rivoluzionario che, adulandolo, lo convinse a restare, a rinunciare alla realtà, per tramutarsi in illusione.
E' il cielo della Camera Picta, dipinta dal Mantegna in nove anni di lento e discontinuo lavoro (dal 1465 al 1474) in una delle torri del Castello di San Giorgio.

Il Castello è parte integrante del complesso di Palazzo Ducale: enorme dedalo ad incastri, labirintica dimora costruita per addizioni successive a partire dalla fine del XIII secolo, fatta di studioli segreti, giardini ameni (quello pensile, per esempio, sul quale ci si affaccia dalla scenografica sala dei Fiumi, dall'atmosfera a dir poco incantata), eccellenti cicli pittorici (come rendere in poche righe l'inaspettata emozione davanti al "non finito" della sala del Pisanello? Un ciclo di affreschi a tema cavalleresco rimasto allo stadio di sinopia sui tre quarti della stanza, dal quale emergono però, qua e là, volti o vesti già perfettamente compiuti), cortili, porticati, terrazze e camminatoi coperti affacciati sul lago: per la bellezza di 34mila metri quadri totali!

Ma torniamo al nostro cielo...
Tra queste quattro pareti coperte da una volta a vela è racchiusa la summa del virtuosismo pittorico di un artista che fece dell'illusione prospettica e dell'arditezza di composizione la sua cifra caratteristica, che gli valse l'essere considerato figura cardine tra coloro che contribuirono al passaggio dall'arte tardogotica a quella rinascimentale.
Incaricato dal marchese Ludovico II Gonzaga di affrescare questo piccolo spazio di rappresentanza, Mantegna vi portò aria, spazio e luce, col solo ausilio di pennelli e colori. Ed ecco che la stanza si tramutò in arioso porticato, aperto su due lati su un verde paesaggio benedetto da una giornata di cui par quasi di sentire il tepore sulla pelle.

Tutta la famiglia Gonzaga è riunita, come in posa, insieme all'illuminata corte di umanisti e dignitari. La stanza è zeppa di simboli, il che ne fa prima di tutto un'allegoria della dinastia dei Gonzaga: non c'è volto, animale (il cane, per esempio, simbolo di fedeltà), o frutto (l'arancio, simbolo del matrimonio: istituzione più che mai centrale nel'imbastire relazioni politiche) che non riconduca a qualche virtù, alla magnificenza e all'abilità di Ludovico II e al riconoscimento di queste in ambito politico e religioso.
Ma il mio consiglio è quello di non affannarsi in una lettura necessariamente "colta", intenta a tradurre ogni elemento in chiave allegorica: chiudiamo la guida che abbiamo in mano, e diamo la precedenza ad un abbandono tutto visivo ed emotivo, che si "accontenta", che non fa troppe domande, e che semplicemente si emoziona. Il resto, vi accorgerete, arriva da sé.

Perdersi nel blu carico del cielo, o far respirare lo sguardo nella vastità del paesaggio, scovare piccole figure anonime (come quelle due che si inoltrano, misteriosamente, in una enorme grotta buia sullo sfondo, proprio sopra la testa del possente cavallo ritratto di tre quarti) e incuranti degli intrecci di potere che vanno maturando a Palazzo, e seguirle in questa loro umanissima indifferenza; salvo poi essere magneticamente attratti verso l'alto, come da un soffio d'aria più fresca che ci accarezza appena, lieve come ogni cosa solo immaginata, verso quella porzione tonda di cielo più vero del vero. Dieci putti alati giocano intorno alla ringhiera di pietra, mostrandoci le loro cosciotte paffute (e magistralmente scorciate); un regale pavone, di cui si immagina la lunga coda iridescente adagiata fino a sfiorare terra, riposa, appollaiato. Tre giovani ancelle ci spiano da quel "lassù" lontano secoli, con aria maliziosa e divertita: quasi come se fossimo noi visitatori, naso in su, a regalare loro un buffissimo spettacolo, in forza di un inaspettato ribaltamento dei ruoli. Una di loro ha i capelli sciolti, ancora non acconciati, e li pettina distrattamente; un'altra guarda lontano, concupita da un moro in turbante la cui espressione non lascia dubbi riguardo le intenzioni audacemente seduttive: ma lei non si scompone, ha chissà cos'altro a cui pensare da centinaia d'anni, bella e sdegnosa oggi come allora. La suggestione è tanta, e quasi viene da tendere le braccia, socchiudere gli occhi per la nuova luce, chiedere di una scala per farsi un giro in quella realtà parallela ritagliata sopra le nostre teste. Se ne esce a malincuore; una volta sulla porta, vien fatto di girarsi un'ultima volta, per stamparsi meglio in mente l'impatto di quella piccola stanza, per goderne ancora un po', portarlo con sé per illuminarne il resto della città.

Piazza delle Erbe

PALAZZO TE E LA MOSTRA SUL MANTEGNA

Ma per nostra fortuna il distacco può farsi meno drammatico, purché in programma ci sia la visita all'altro scrigno prezioso di Mantova: Palazzo Te.
Lungo la strada, non trascuriamo di far visita all'altro spirito geniale, attivo in città negli stessi anni del Mantegna: Leon Battista Alberti. Chiediamo di lui con gli occhi rivolti verso le volte a botte di Sant'Andrea, chiesa che pacifica l'animo con la purezza estrema delle sue linee di pietra tutta terrena, più ancora che con l'impalpabile spiritualità che vi trova rifugio; o cerchiamolo nella grazia ombrosa della loggetta di San Sebastiano (non senza aver prima dato un'occhiata, già che siamo qui, all'originale pianta architettonica della casa del Mantegna - proprio di fronte - col suo cortile circolare inscritto in un quadrato).

Giunti infine a Palazzo, la scoperta dell'arte del Mantegna continua in grande stile grazie alla mostra "Mantegna e Mantova 1460-1506" che a mio avviso varrebbe ampiamente una visita anche solo per le deformi personificazioni dei vizi della tela Minerva che scaccia i vizi (la prima che incontrate) e per il celebre Cristo Morto (prestato dalla Pinacoteca di Brera, che per lasciarlo partire si è fatta infinitamente pregare: e, vedendolo, come dargli torto!).

L'allestimento, con pannelli neri che immergono le opere in una densa penombra, enfatizza ancor meglio l'esplosione di colore di alcune di esse (come la piccola Natività di Leonbruno, da Tokyo) e la solida plasticità di una pittura - quella del Mantegna - che non a caso fu chiamata "pittura scolpita": basta soffermarsi di fronte ad un Cristo risorto in mostra, per esempio, per comprendere come il vero protagonista del quadro non sia in realtà Cristo, quanto il sudario bianco che gli cinge le reni: ogni piega è modellata come da un colpo di scalpello.

E che dire dell'illusionismo plastico, tridimensionale delle grisaille (pittura monocroma, basata su varie tonalità di grigio, con effetti di chiaroscuro e rilievo)? Sia che si tratti di tavole dipinte o di volte affrescate, si stenta a credere ai propri occhi, e ce ne vuole per convincersi di non essere davanti a dei bassorilievi scolpiti nella pietra! Caratteristiche, queste, che derivano, nel Mantegna, dalla sua devozione incondizionata e idealizzante all'antichità (circoscritta alla statuaria romana); illuminanti a tal proposito le parole del grande critico Bernard Berenson, che chiarisce la natura essenzialmente pagana del Mantegna: "(...) egli dimenticò che i Romani erano gente di carne e ossa; e li dipinse quasi fossero tutti di marmo, e sempre in pose statuarie. Nessun tema, in nessun momento, sfuggì a questo suo processo di romanizzazione. Poco importa quale delle sue "pitture religiose" sceglieremo come esempio: in tutte, i vecchi appaiono come orgogliosi senatori, i giovani hanno prestanza militare, le donne sono floride, imponenti. E camminano per strade fiancheggiate da templi, palazzi e archi trionfali, o in paesaggi pietrificati come quelli dei bassorilievi. Che si tratti di Crocifissione, Circoncisione o Ascensione, che pure offrono bellissime opportunità d'emozione specificamente cristiana, il Mantegna non vide che pretesti a descrivere il mondo antico. Sono composizioni da trasportarvi al settimo cielo: ma non certo sulle ali della fede".

Questa sua impostazione fu portata avanti con tale maestrìa, che l'iconografia cristiana finì per coincidere e uniformarsi quasi esclusivamente a queste sue "pagane" rappresentazioni.

Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i vizi (proveniente dal Louvre). E', questo, uno dei tanti capolavori che ornavano le pareti dello "studiolo" di Isabella d'Este, all'interno di Palazzo Ducale. Personalità affascinante, Isabella fu illuminata committente e insaziabile collezionista di pregiate opere d'arte.

Ma non mancano le volte in cui il Mantegna si discosta da questa sua raffinata ossessione, per darci dei ritratti stupefacenti nel loro saper cogliere la realtà "così com'è", con un realismo lontanissimo da ogni idealizzazione: è il caso dei già citati ritratti della Camera Picta (con l'impietosa bruttezza di Barbara di Brandeburgo, moglie di Ludovico II Gonzaga); o, tra gli altri, del meraviglioso volto di vecchio che emerge nella Sacra Famiglia con Sant'Elisabetta e San Giovannino (proveniente da Dresda).

La facciata interna di Palazzo Te, vista da uno dei due cortili.

Conclusa la visita alla mostra temporanea, il resto di Palazzo Te ci permette di fare un salto cronologico in avanti, fino al 1524, data in cui il posto di "artista di corte" che fu del Mantegna venne occupato dall'altrettanto geniale architetto-pittore Giulio Romano (allievo di Raffaello), che impronterà del suo manierismo l'intera città, a partire proprio dalla riedificazione e decorazione di Palazzo Te (a suo tempo rimessa per cavalli situata in quella che allora era una zona d'aperta campagna - chiamata tejeto, non è chiaro se in riferimento ai tanti tigli presenti o alle capanne che vi sorgevano - e che Federico II Gonzaga volle "accomodare un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso", come riporta il Vasari; in due parole, volle farne un luogo di ozio e diletto). Una successione di sale affrescate che si attraversano con la curiosità di scoprire quali sorprese stilistiche e narrative ci riserverà la stanza successiva, in un crescendo di invenzioni delle più varie.

Uno degli ambienti di Palazzo Te: la piccola loggia che si affaccia sul "giardino segreto".

I giardini pubblici esterni al Palazzo, che ogni giorno all'uscita delle scuole si tramutano in un coloratissimo e affollato parco giochi dall'atmosfera caotica ma assai ritemprante: vi consiglio di prendervi un bel gelato e godervela per un po'!

Due le doverose menzioni d'onore. La prima, per la sala di Psiche: sorta di enorme "fumetto" cinquecentesco, dalla complessa decifrazione, che dipana sul soffitto e sulle pareti la storia - divisa in scene - di Amore e Psiche. La seconda va alla stanza dei Giganti: originalità e inventiva su scala titanica, la più coinvolgente scena di ammonizione della superbia umana che si possa immaginare, e che le inevitabili accortezze ad uso e consumo dei visitatori (brutte seggioline, cordoni di protezione, colonna porta-opuscoli informativi) non sono riuscite a snaturare: si resta ancora a bocca aperta. Ci si sente ancora schiacciati da quell'istantanea a 360°, che abolisce spigoli ed elementi architettonici con una stesura continua della pittura sulle pareti e sul soffitto, per calare lo spettatore al centro esatto della scena; inutile girarsi, confusamente, in cerca di un punto di riferimento rimasto intatto in tutto quello sfacelo: ovunque è rovina di architetture, alberi e rocce, giganti schiacciati, scomposti, sanguinanti, o in salvo per un attimo in un angolo pericolante, o ormai arresi, disperati, senza più contegno, con le mani premute sugli occhi o tra i capelli, o con il viso stravolto dalla paura. Solo per darvi un'idea della potenza espressiva di questo ciclo pittorico riporto il parere turbato e infastidito (e senza dubbio eccessivo) di un visitatore d'eccezione come Charles Dickens: "l'effetto complessivo che fanno è quello - così mi pare - di un violento afflusso di sangue al cervello. Queste pitture sembrano predisporre all'apoplessia".

Ecco cosa succede, a tentare di scalare l'Olimpo a forza di presunzione e superbia. Tentare di sostituire la legge dell'Uomo a quella divina, non conviene: troppo svantaggio. Basta un gesto da lassù, e si scatena il finimondo, e in un attimo è il dramma, è la caduta. E gli dèi, vi chiederete voi? Gli dèi "stanno a guardare", come da copione: sospesi in una quiete di nuvole che, esaltata dal contrasto, sembra ancora più lontana e irraggiungibile.

Le sponde dei tre laghi - qui quello Superiore, colto nella "fase rosa" del tramonto - vantano una vegetazione a dir poco lussureggiante!

Un'idea originale del Consorzio dei produttori di latte del mantovano: pochi spiccioli, e ci si porta a casa una bella bottiglia di latte appena munto!

I LAGHI (E TUTTO IL RESTO)

Quanto scritto sopra basterebbe già (e ce ne sarebbe d'avanzo) a far di Mantova una città che ha tanto da dare. Ma la città ha numerose altre frecce al suo arco. E il bello è che sono tutte scoccate con estrema delicatezza: si presentano al visitatore quasi sottovoce, timidamente si lasciano scoprire, senza mai imporsi (come invece accade in tante altre presuntuose città d'arte).
E' città di accostamenti inconsueti, contrasti stridenti che si accolgono con l'entusiasmo riservato alle cose improbabili e inaspettate, proprio come i suoi piatti tipici: provate la mostarda (frutta candita con zucchero e piccante essenza di Senape) servita con il grana, e capirete di cosa sto parlando.

Mantova è il ricordo della magnificenza di una delle Signorie più fiorenti del Rinascimento unita alla rilassatezza odierna, a una pacatezza di provincia, dai ritmi rallentati, in sordina, che regalano al viaggiatore che vi si avventuri una quiete delle più dolci.
E' un piatto di tortelli di zucca (assai più "scioccanti" di quelli ferraresi!) conditi con burro fuso, salvia e parmigiano, il cui interno vi sorprende con un impasto dolcissimo, a base di amaretti e biscotti secchi sbriciolati, cannella, e talvolta uva sultanina.
E' un distributore automatico di latte munto in giornata, proprio sotto l'arco che divide le due piazze principali, segno di uno sfarzo illuminato che ha trovato nell'agricoltura il suo paradossale sbocco e assestamento.
E' il Rio, piccolo e antichissimo canale che taglia in due la città e che in certi angoli gioca a travestire Mantova da "piccola Venezia". E' una piazzetta raccolta in se stessa come  quella intitolata a Matilde di Canossa, con le pietre scolpite delle facciate dei palazzi e la sua piccola edicola liberty di fine Ottocento.
E' l'argento levigato dell'acqua e la superficie sconnessa delle strade lastricate di ciottoli di fiume (sublime supplizio per le piante dei piedi sulle lunghe distanze).

Affacciato sull'ampio spazio di Piazza Sordello, ecco il Palazzo del Capitano. E' uno dei "blocchi" più antichi - costruito dalla famiglia dei Bonacolsi nel XIV secolo - tra quelli che compongono l'enorme complesso di Palazzo Ducale. I Bonacolsi furono cacciati dai Gonzaga nel 1328: anno in cui ebbe inizio la loro signoria sulla città, che si protrarrà per quasi quattro secoli.

A proposito di acqua, tra le attrazioni a cui non si può rinunciare ce n'è una ad ingresso gratuito, che non prevede code né prenotazioni, ma che vale tanto quanto ogni altro suddetto capolavoro: è il tramonto sul lago Superiore. E' in forza di un provvidenziale "3x2", infatti, che i due cieli di Mantova si specchiano in ben 3 laghi (Superiore, di Mezzo e Inferiore: stavolta tutti reali, formati dall' "impaludarsi" - per dirla con Dante - del fiume Mincio lungo il percorso che dal Lago di Garda lo porta a dimenticarsi nel Po).

Le sponde sono state risistemate in anni recenti, dando vita ad una stupenda passeggiata che copre i tre quarti del perimetro della città, immersa in una fauna delle più varie, tra colonie di cigni, germani reali, pescatori e "jogger" (e se proprio vi va di strafare, voi viaggiatori allenati, sappiate che c'è la possibilità di arrivare fino a Peschiera del Garda in bicicletta, lungo una ciclabile di circa 40km - alla fine della quale è approntato un servizio di bus che riporta voi e la bici a Mantova: misericordiosa accortezza per evitare di avere morti sulla coscienza. Ma visto che parlo per sentito dire, vi raccomando di informarvi ben bene prima di mettervi in marcia!).

Quello Superiore è il lago più vasto, nonché quello in cui cade il sole; seduti a gambe incrociate sull'erba umida della sponda (vietato lamentarsi per le zanzare!), vi tramonta proprio in fronte, poco al di là di un'isoletta fatta esclusivamente di fiori di loto (che sboccia in agosto). E' un'attesa popolata di silhouettes via via più nette; un teatrino di ombre cinesi che declama la luce in versi di poesia: dalla preziosità dell'oro che abbaglia, alla tenerezza del rosa tenue, passando per un vitale arancione, fino al misterioso e inquietante rosso carico, che ha già in sé il buio della notte.

Mantova è città pragmatica e dai modi un po' "rudi" (siamo pur sempre in Lombardia!), ma ha alle spalle una storia finemente intessuta di leggenda, che la vide approdo di due lunghi e avventurosi pellegrinaggi. A cominciare dalla sua origine. Se apriamo la Divina Commedia al canto XX dell'Inferno, è la voce stessa di un cittadino illustre come il poeta Virgilio che ce la narra (ai vv. 52-99): l'indovina tebana Manto, fuggita da Tebe dopo la morte del padre, tanto pellegrinò, fino ad arrivare ad avvistare un'isola circondata da "un pantano, senza coltura e d'abitanti nuda"; Mantova infatti, fino al Settecento (quando venne interrato dagli austriaci) contava un quarto lago detto "di Paiolo", che ne faceva una vera e propria isola, ben protetta da ogni indesiderata intrusione. Il luogo ideale per "fuggire ogne consorzio umano", com'era volere dell'esule Manto, che qui poté riprendere indisturbata ad esercitare le sue arti divinatorie, mentre altre genti, attratte dalla sicurezza del luogo, iniziarono pian piano a stabilirvisi.

L'altra "leggenda" è custodita ancora nel buio della cripta della chiesa di Sant'Andrea, all'interno di due preziosissimi vasi dorati, così come la reliquia che pare contengano. Avete presente il centurione romano Longino? Quello che trafisse con una lancia il costato di Cristo. Bene: Longino aveva gli occhi malati, e il sangue che zampillò finì, oltre che in terra, anche sul suo viso. Gli occhi miracolosamente guarirono, e Longino, istantaneamente convertito, raccolse la venerabile terra bagnata, per portarla con sé nel suo pellegrinare. A Mantova incappò nel martirio, ma, previdente, il Preziosissimo Sangue era già al sicuro, seppellito dentro una piccola cassetta di legno. Dopo varie vicissitudini, metà della reliquia venne rinvenuta (nel 1048) proprio nel luogo dove oggi sorge Sant'Andrea, qui eretta proprio per dar degna collocazione ad un sentimento così forte da aver attraversato tutti quei secoli.

"Tutte storie!", dirà qualcuno. Certo, più che probabile. Ma auguriamoci di non perdere mai la fantasia sufficiente ad averne ancora bisogno!

Rilievi scolpiti nel legno di un portone, nella piccola Piazza Canossa.

Tornati infine coi piedi per terra, concludiamo con qualche consiglio pratico. Per dormire, vi segnalo il B&B Ai giardini del Te (sito QUI): quindici minuti di passeggiata al massimo dalla stazione ferroviaria e dal centro storico, due passi da Palazzo Te; camere con bagno, spaziose e pulitissime, semplici ma accoglienti; cucina a disposizione degli ospiti; colazione servita dal padrone di casa, cordiale e pronto ad illuminarvi su qualsiasi curiosità mantovana. Il tutto per 60 euro a notte a camera doppia. A pochi metri, la pizzeria "La Botte", piccola e semplicissima: ma le pizze sono sostanziose, da leccarsi i baffi (provate la Trevigiana, con radicchio di Treviso, patè d'olive e olive nere, o la Fantasia, con speck, gorgonzola e rucola). Se volete provare piatti tipici, invece, l'Osteria Broletto (nell'omonima piazzetta) ha un'ubicazione ineccepibile: si mangia anche all'aperto, sotto un piccolo portico tra le due piazze principali (delle Erbe e Sordello); per darvi un'idea, con 40 euro si mangiano due antipasti, due primi, acqua e caffè: l'atmosfera è da sogno (e, soprattutto, gratis).

Serena Effe © 09/2006
Riproduzione Riservata

Ci tengo a precisare, a scanso di equivoci, che ogni mia segnalazione "commerciale" è del tutto spassionata, non "viziata" da sconti o trattamenti di favore di alcun tipo: i titolari non ne sono neanche a conoscenza. Sono consigli senza alcuna pretesa, con un occhio - spesso tutti e due - di riguardo al risparmio, testati in prima persona per necessità, e che solo in seguito scelgo di mettere a disposizione dei lettori nell'intento di fornire un "servizio" in più (per quanto assolutamente parziale, soggettivo e informale quanto una chiacchierata tra amici).

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