L'INCOMPIUTO
Quando il soggetto è l'opera altrui
Carlo Riggi, settembre 2011

Come dicevamo nell'incipit di un precedente articolo (Attimi di eternità), la fotografia si sostanzia in un atto, semplice e complesso insieme: guardare.

Assumere il vedere come soggetto, porta a rivolgersi con intenzione fotografica verso ogni cosa, talvolta anche le opere altrui. In questi casi diventa difficile stabilire quanto merito del prodotto finale sia da attribuire al fotografo e quanto, per diritto d'autore, all'artefice dell'opera originaria. Essa, per quanto trattata alla stregua di "materia grezza", da destrutturare e ristrutturare attraverso il filtro autoriale del fotografo, è comunque già un'opera compiuta, con una sua precisa preesistente identità. Questo non riguarda solo gli oggetti d’arte, ogni cosa che venga fotografata, sia naturale, artificiale o umana, è un' "opera compiuta". Quanto merito spetta al fotografo e quanto al padreterno nella resa di un bel tramonto? Quanto spetta al fotografo e quanto alla modella - e alla di lei mamma - nella riuscita di un ritratto?.. La fotografia ha come caratteristica specifica il partire da un dato grezzo di realtà che, per quanto trasfigurato e plasmato dall’intervento dell’autore, reclama un proprio legittimo diritto di primogenitura.

La fotografia utilizza elementi definiti, e quasi mai è in grado di attribuire loro ulteriore compiutezza. L’autore - a meno di essere un semplice riproduttore - immette elementi di insaturità, di astrazione, di travisamento, oppure, attraverso la grammatica visiva che gli è propria, suggerisce nuove relazioni spaziali o semantiche tra gli elementi della scena circoscritta. Include o esclude porzioni di spazio, introducendo elementi di arbitrarietà in grado di scardinare la valenza testimoniale (in senso realistico) della scena, virando così verso una interpretazione soggettiva, emozionale o affettiva, quasi sempre interlocutoria.

E se la missione della fotografia fosse proprio questo: di rendere il compiuto "incompiuto"?..

Abbiamo sempre accettato il paradigma secondo cui la fotografia è in grado di isolare e congelare pezzi di spazio/tempo estratti da un flusso in movimento costante... Ma, a ben guardare, potrebbe essere il contrario: lo scatto si insinua negli interstizi di una realtà fatta di punti discreti, perfettamente delimitati, e ne estrapola uno stato di incompiutezza, un vettore polisemico in continuo mutamento, una perturbazione delle strutture grafica e semantica all'interno delle quali prendono avvio nuove derive di pensiero e di emozioni. Questo avviene pure con le foto ricordo: non sono reperti da congelare e conservare, ma crescono insieme a noi, in quel preconscio ausiliario che è l’album di famiglia. Così, attraverso la bellezza e una quota di incompiutezza, la realtà viene sublimata e acquista, nella fotografia, il valore dell'eternità. Non bloccata in una dimensione catatonica, ma liberata e aperta agli sviluppi di una inesauribile tensione trasformativa.

Carlo Riggi © 09/2011

La relazione tra due elementi della stessa opera viene ridefinita attraverso gli strumenti propri della fotografia. Il risultato è più della scultura originaria, più della somma degli elementi che la compongono, più della relazione tra l’opera e l’emozione del fotografo. L’incompiutezza porta a nuove derive interpretative, in cui l’elemento reale (“oggettivo”), passando per la preconcezione del fotografo, incontra l’emozione del fruitore innescando nuovi originali percorsi di senso.

Due elementi estranei tra loro, il poster e la saracinesca, nella composizione dell’immagine entrano in relazione dialettica. Questa è la condizione perché la fotografia sia un vero gesto autoriale e non mera riproduzione? L’emozione dell’autore, interpretata attraverso gli strumenti propri della fotografia, non è già di per sé un “elemento estraneo”, in grado di sovvertire o ampliare i significati dell’opera compiuta?..

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Due soggetti combinati tra loro da un agente terzo (un vetrinista). Il fotografo utilizza, tra i suoi strumenti peculiari, un personale punto di ripresa. Basta questo a fare di questa foto una nuova opera originale? La domanda può essere posta in modo diverso: la fotografia è in grado di evocare emozioni diverse da quelle della scena originaria? Solo così possiamo capire se ci troviamo di fronte a un nuovo processo artistico o a una semplice riproduzione dell'opera fotografata.

Il taglio, l’inclinazione, la profondità di campo, la monocromia, introducono elementi di interferenza tra l’opera originaria e la sua nuova rappresentazione. Il quadro di Hopper qui non è reinterpretato, ma destrutturato e riconsegnato all’incompiuto.

In questa immagine il fotografo crea, attraverso il dosaggio della profondità di campo, un elemento di spazialità inesistente sulla tela. L’opera originaria non viene riprodotta, ma viene “perturbata”. Il fruitore è chiamato a un lavoro di “ristrutturazione del campo” per recuperare un nuovo ordine gestaltico. Questo rende la fotografia viva, volano di nuovi potenziali processi simbolici.