LE DIMENSIONI DEL SENSORE E LE DIMENSIONI DI STAMPA
Michele Vacchiano, gennaio 2010

Quanto contano le dimensioni della superficie di acquisizione? Tanto, forse più del numero di pixel che la compongono. E' ormai arcinoto che 16 milioni di pixel affollati in un sensore APS-C forniscono risultati più scadenti di quelli garantiti dallo stesso numero di pixel, ma distribuiti su un sensore medio formato di 48x36 millimetri.

La stampa, alla fine
Al di là di tutto, quello che conta è la qualità della stampa finale. E' vero che i dilettanti spesso si accontentano di visualizzare le loro fotografie sul monitor del PC, e in questo caso anche una compatta di fascia media fornisce risultati (apparentemente) accettabili; ma questa non è la destinazione finale dell'immagine scattata dal fotoamatore poco più che principiante, e meno che mai dal professionista, che oggi - esattamente come quando lavorava con diapositive - fotografa pensando alla pubblicazione a stampa. Intendendo con questo tanto la stampa fotografica (ottenuta con le diverse tecniche oggi disponibili) quanto la stampa offset su libri o riviste, che è la destinazione finale delle immagini professionali.

Questione di ingrandimenti (e non solo)
Ora, è evidente che quanto minore sarà l'ingrandimento necessario a realizzare una stampa di dimensioni prestabilite, tanto più nitida e ricca di dettagli apparirà l'immagine stampata.

Nella stampa da digitale, poi, esiste un altro problema, quello dell'interpolazione.

In pratica, le dimensioni massime della stampa ottenibile da un determinato file sono direttamente proporzionali alla quantità di pixel presenti nel file. Un sensore full-frame da 12 milioni di pixel consentirà una stampa a 300 dpi non superiore ai 24x36 centimetri circa.

Cosa si fa quando si vuole una stampa più grande? Semplice, si interpola, cioè si dice al software (che può essere tanto il software di postproduzione che stiamo usando quanto quello della stampante del laboratorio) di "inventarsi" dei pixel inesistenti da mettere tra un pixel e l'altro, e che ovviamente "assomiglino" ai pixel vicini (usiamo intenzionalmente un linguaggio terra-terra). Quanto più sofisticato è l'algoritmo di interpolazione, tanto meno si vedranno i difetti. In ogni caso, superata una certa percentuale (che gli esperti calcolano intorno al 20 per cento) insorgono difetti visibili, evidenti pixelature e artefatti JPEG.

Piemonte. Provincia di Cuneo. Abbazia di Staffarda. Diapositiva originale 4x5 pollici (10x12 centimetri) scandita a 2400 dpi. Il file così ottenuto ha una dimensione di circa 115 milioni di pixel (Megapixel), quasi cinque volte quella ottenibile dalle reflex digitali più performanti, e doppia rispetto al più potente dorso digitale per il medio formato oggi in commercio. La quantità di pixel è tale da avere consentito una stampa a 300 dpi di circa 80x100 centimetri, ovviamente senza interpolare.

Una tabella comparativa
Per capire quanto contino le dimensioni della superficie di acquisizione in rapporto alla stampa, pubblichiamo qui di seguito una facile tabella.
Assumiamo di voler ottenere una stampa il cui lato lungo misuri 30 centimetri, e vediamo quanto occorrerà ingrandire il fotogramma partendo dai formati più in uso. Nella prima colonna abbiamo elencato i formati più diffusi, tanto a pellicola (in rosso) quanto in digitale (in verde). Per non introdurre altre variabili, ipotizziamo che tutti i sensori abbiano la stessa quantità di pixel. Nella seconda e terza colonna appaiono, nell'ordine, le dimensioni della superficie di acquisizione (lato minore e lato maggiore). Nella quarta colonna appare il fattore di ingrandimento lineare, calcolato sul lato lungo e approssimato al secondo decimale.

Tipo di apparecchio
Lato < in mm
Lato > in mm
Ingrandimento
Apparecchi di grande formato 4x5 pollici
102
127
2,36
Dorsi per pellicola in rullo 6x9, Fuji GW, GSW
56
81
3,70
Medio formato 6x6 (Hasselblad, Rollei)
56
56
5,36
Medio formato 4,5x6 (Mamiya, Contax 645)
42
56
5,36
Pellicola 135
24
36
8,33
Digitale full frame
23,8
35,8
8,38
Leica M8
18
27
11.11
APS-C (Nikon D40, D50, D70, D80)
15,7
23,7
12,66
APS-C (Canon 300D, 350D, 400D)
14,8
22,2
13,51
Quattro terzi (Olympus)
13,5
18
16,67
Due terzi (Minolta Dimage)
6,6
8,8
34,1
1/1,8 (compatte di fascia alta)
5,32
7,18
41,78
1/2,5 (compatte di fascia media)
4,28
5,76
52,08
1/3,2 (compatte di fascia economica)
3,42
4,54
66,08

Come si vede, le differenze sono drammatiche. L'immagine proveniente da un sensore APS-C deve essere ingrandita poco più (o poco meno, a seconda delle dimensioni reali del sensore) di 13 volte, a fronte delle "sole" 8,38 volte richieste dal sensore full-frame e alle 2 volte e neanche mezza del 4x5 pollici.

Fotografia scattata con una compatta di fascia economica. Sopra, l'immagine nel suo insieme; sotto, un particolare ingrandito che mostra il rapido decadimento della qualità di immagine, in particolare per quanto riguarda l'aberrazione cromatica visibile nel passaggio tra neve e cielo e la presenza di artefatti JPEG.

Tutto questo in teoria, senza cioè tenere in considerazione altri parametri, strettamente dipendenti dalle tecnologie di stampa e dalle caratteristiche della visione umana. Andiamo per ordine.

Pixel per pollice e punti per pollice: attenti agli equivoci
I pixel sono gli elementi puntiformi che costituiscono l'immagine raster (reticolo). Nei sensori delle fotocamere digitali, il pixel è l'unità minima di acquisizione. Il numero di pixel che costituiscono un'immagine determina la quantità di particolari (risoluzione) che possono essere riprodotti.

L'unità di misura che descrive la risoluzione dei sensori è il milione di pixel (Megapixel). Questa grandezza è indipendente dalle dimensioni del sensore: in altre parole, a parità di dimensioni il sensore può contenere più o meno pixel. E qui cominciano i guai, dovuti essenzialmente al fatto che quanto più piccolo è il sensore, tanto più svantaggioso risulta aumentarne la risoluzione. Purtroppo la tendenza del mercato è quella di abbagliare il potenziale compratore promettendo decine di milioni di pixel stipati in sensori minuscoli. Il che significa di fatto diminuire le dimensioni fisiche di ogni singolo pixel provocando come prima conseguenza un proporzionale aumento del rumore elettronico. Un sensore di medio formato di 48x36 millimetri che contenga "soltanto" 16 milioni di pixel offre immagini qualitativamente superiori a un sensore Aps-C di eguale risoluzione. Eppure questo non viene sempre percepito dal consumatore, il quale non capisce che la differenza di prezzo tra modelli diversi è spesso determinata da funzioni e gadget che nulla hanno a che fare con la qualità di immagine: se lo stesso sensore piccolo e rumoroso viene montato su tutti i modelli di una determinata linea produttiva (i quali spesso condividono anche lo stesso obiettivo), ciò significa che non esiste nessuna differenza reale, in termini di qualità, tra il modello entry-level e il modello di punta, e che la differenza di prezzo è determinata da parametri di fatto inutili.

Per parlare di stampa, invece, bisogna introdurre il concetto di "dot per inch", cioè punti per pollice (dpi): la quantità di punti stampati su una linea lunga un pollice (circa 2,54 centimetri). In genere, quanto più alto è il valore di dpi, tanto migliore risulta la riproduzione dei particolari minuti, in particolare lungo le linee oblique. E' importante sottolineare il fatto che si tratta di una grandezza fisica reale e non virtuale, per cui parlare di dpi ha senso soltanto quando l'immagine viene stampata: fino a quando questa rimane memorizzata in un computer, il parametro è privo di significato. Attenzione anche a non confondere i pixel per pollice con i punti per pollice: le stampanti a getto d'inchiostro, ad esempio, usano più punti per rappresentare un singolo pixel.

Densità di stampa e distanza di visione
Si dà normalmente per scontato che la distanza di visione necessaria ad apprezzare nella sua totalità un'immagine corrisponda, approssimativamente, alla diagonale della stampa. Questo significa che una stampa di 20x30 centimetri viene apprezzata correttamente alla distanza di circa 36 centimetri da un osservatore normovedente. Il fatto che il crescere delle dimensioni della stampa comporti un proporzionale aumento della distanza di visione permette di calibrare diversamente la risoluzione di stampa. Se per la stampa offset su riviste si usa una risoluzione non inferiore a 300 dpi, per i manifesti stradali (destinati ad essere osservati da metri di distanza) la risoluzione può scendere a 100 dpi e anche meno. Il vantaggio è costituito dal fatto che diminuendo la risoluzione di stampa è possibile (a parità di pixel originari) ottenere stampe proporzionalmente più grandi.

Il fotografo può controllare personalmente, in fase di postproduzione, le dimensioni finali della stampa in base alla risoluzione impostata. Si osservi l'immagine qui sotto. Si tratta della finestra di dialogo che compare in Photoshop quando si seleziona Immagine > Dimensione immagine.

Nella parte superiore della finestra compaiono le dimensioni del file in pixel. L'immagine visualizzata sullo schermo, così come catturata dal sensore, è larga 4252 pixel e alta 2835 pixel.

Nella parte inferiore della finestra compaiono le dimensioni che il documento avrà una volta stampato a 300 pixel per pollice (risoluzione di output). In questo caso le dimensioni della stampa saranno pari a 36 per 24 centimetri.

Ammettiamo ora di voler stampare il nostro file a una dimensione doppia, senza però introdurre algoritmi di interpolazione. Per conoscere la risoluzione di stampa necessaria, dovremo deselezionare la casella "Ricampiona immagine" e scrivere "72" (il doppio di 36) nella casella "Larghezza", come illustrato qui di seguito.

Vediamo così che per ottenere una stampa di 72 centimetri di larghezza dovremo stampare a una risoluzione di output pari a 150 pixel per pollice.

Ma a questo punto ancora non sappiamo nulla della qualità finale della stampa, che dipende dalla quantità di punti per pollice che la stampante è in grado di generare. Per capirci meglio, diremo che anche la stampante è un dispositivo raster (cioè funziona in base a una griglia), che può stampare a una risoluzione fissa o variabile all'interno di una più o meno vasta gamma di possibilità. Se ad esempio la stampante lavora a 1440 dpi, ciò significa che può depositare non più di 1440 punti di inchiostro CMYK per pollice lineare. Ogni punto a sua volta non può essere se non un colore pieno. Il fatto che la stampante sia un dispositivo raster implica che le sfumature di grigio vengono ottenute generando punti bianchi e neri più o meno ravvicinati: osservando la stampa da una certa distanza i punti bianchi e neri vengono percepiti come un grigio uniforme.

Se la risoluzione della stampante è un parametro assoluto, la risoluzione di stampa è un parametro relativo, che indica di quanti pixel per pollice deve essere la griglia di stampa (il raster) entro la quale vengono collocati i punti di inchiostro in relazione alla risoluzione della stampante.

Facciamo un esempio. Se la stampante ha una risoluzione di 1440 dpi e la risoluzione di output da noi impostata è pari a 150 pixel per pollice, avremo: 1440/150 = 9,6 punti di inchiostro per lato per ogni pixel, e cioè 92,16 (9,6x9,6) diverse tonalità per ogni pixel . Il che, moltiplicato per la quantità di inchiostri base disponibili, permette di raggiungere diverse migliaia di tonalità. Questo in teoria e solo per far capire. In realtà la faccenda è più complessa: nelle stampanti a getto d'inchiostro, ad esempio, i punti colore possono essere di dimensioni variabili e possono sovrapporsi, generando una quantità molto superiore di combinazioni di colore.

Ritorniamo ora al concetto di distanza di visione. Abbiamo detto che quanto più aumentano le dimensioni della stampa tanto più è necessario allontanarsi per apprezzare l'immagine nella sua interezza. Di conseguenza la diminuzione della risoluzione di stampa non dovrebbe costituire un problema.

In realtà non avviene sempre così. La distanza di visione osservata da chi legge una rivista, ad esempio, rimane costante indipendentemente dalla dimensione delle fotografie che vi sono stampate. Che l'immagine sia stampata a doppia pagina o che sia un francobollo messo lì per riempire la griglia sotto il titolo, la distanza di lettura non cambia. Lo stesso accade a chi visita una mostra fotografica. Se il visitatore non è frettoloso, effettuerà due distinte letture a due distanze differenti: la prima avrà come scopo quello di apprezzare l'immagine nella sua interezza, e sarà quindi effettuata a una distanza approssimativamente coincidente con la diagonale della stampa; ma la seconda sarà fatta a una distanza più ravvicinata, per apprezzare la qualità dei dettagli. Se questi dettagli saranno penalizzati da una risoluzione insufficiente, il giudizio del visitatore non potrà che essere negativo.

Ritornando...
Ritorniamo quindi a ribadire quanto detto all'inizio, e cioè che le dimensioni della superficie di acquisizione, unite alla quantità e alle dimensioni degli elementi sensibili che la compongono, costituiscono un parametro indiscutibile di qualità. Pur riconoscendo che gli algoritmi di interpolazione dei software di gestione e delle stampanti fanno letteralmente miracoli, non possiamo illuderci più di tanto: anche ai miracoli c'è un limite, come ben sanno i professionisti che lavorano per clienti esigenti, (giustamente) pignoli e attenti alla qualità del prodotto.

Non è un caso che riviste come "Arizona Highways" preferiscano ancora oggi pubblicare a piena pagina (12x18 pollici, ossia poco più di un A3) soltanto le immagini provenienti da pellicola invertibile 4x5 pollici, tollerino il medio formato e riservino il piccolo formato alle stampe di piccole dimensioni. La stessa rivista accetta - con riserva - le immagini digitali soltanto per la pubblicazione sul sito web, o per stampe davvero piccole, ritenendo (lo dicono loro, non noi) che soltanto al di sopra dei 25 milioni di pixel l'immagine digitale possa iniziare ad essere paragonabile a una diapositiva 35 millimetri.

E allora?
Fortunatamente non tutti i professionisti pubblicano su "Arizona Highways" e non tutti i fotoamatori stampano costantemente a 20x30 centimetri. Ma come sempre bisogna essere consapevoli non soltanto delle possibilità, ma anche (e forse soprattutto) dei limiti del sistema che si sta usando, senza pretendere l'impossibile da sensori non più grandi dell'unghia di un mignolo.
Come fanno molti dilettanti, che fotografano i figli col telefonino, chiedono una stampa da appendere in salotto e protestano con il laboratorio perché "è venuta male"!

Michele Vacchiano © 01/2010
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