PROFONDITA' DI CAMPO: IDEE SBAGLIATE, PREGIUDIZI, SUPERSTIZIONI E LEGGENDE METROPOLITANE
Michele Vacchiano, ottobre 2000

Diciamocelo: sulla nitidezza dell'immagine se ne sentono di tutti i colori. Quando poi ci si addentra in concetti che attengono all'ottica geometrica, allora il pressapochismo e il pregiudizio la fanno da padroni: gli orecchianti si trasformano in tuttologi e fanno a gara a chi spara le panzane più colossali...

Il Gran Paradiso visto dalla morena frontale, poco sopra il rifugio Vittorio Emanuele. Il paesaggio morenico, drammaticamente tormentato, è stato messo in risalto dall'uso del grandangolo. L'energica diaframmatura ha consentito di mantenere a fuoco tanto il primissimo piano quanto lo sfondo.

...per cui, alquanto depresso per la lettera appena ricevuta, che mi spiega con dovizia di argomentazioni che gli obiettivi "x" hanno una profondità di campo maggiore di quelli di altre marche, ho deciso che forse è il caso di offrire un modesto quanto (ne sono convinto) inascoltato contributo volto a sgombrare il campo da idee tanto sballate quanto perniciose (nonché dannose per il mio equilibrio nervoso).

PROFONDITA' DI CAMPO: CHE COS'E'
La profondità di campo, che d'ora in avanti abbrevieremo in pdc e che va distinta dalla profondità di fuoco, è un'illusione. Un'illusione che entro certi limiti funziona, ma pur sempre un'illusione. Perché? Perché la messa a fuoco vera, perfetta, unica, si verifica solo e sempre su un piano geometrico. E se non avete rimosso i concetti base della geometria appresi in prima media, ricorderete che il piano non ha profondità. Tutto ciò che non giace su quel piano è fuori fuoco.

MA ALLORA?
Perché allora continuiamo a parlare di profondità di campo? Perché il nostro occhio è imperfetto e percepisce come punti anche i cerchietti, a patto che questi siano inferiori a un certo valore. Questo valore è il limite del circolo di confusione.

Perché le immagini scattate col grandangolo sembrano avere tutto a fuoco? Semplicemente perché la sensazione di profondità di campo è inversamente proporzionale all'ingrandimento: oggetti più piccoli (quali quelli che appaiono in una fotografia grandangolare) appariranno più nitidi di oggetti più grandi.

Facciamo un esperimento dividendolo in due fasi. Prima fase: proviamo a riprendere lo stesso soggetto e lo stesso sfondo con un grandangolo (negativo A) e con un teleobiettivo (negativo B), dalla stessa posizione e con lo stesso diaframma. Ingrandiamo i due negativi dello stesso fattore. Otterremo due stampe diverse: in quella tratta dal negativo scattato col grandangolo (A) il soggetto e gli elementi di sfondo appariranno più piccoli di quanto non appaiano nella fotografia scattata con il tele (B). Inoltre la stampa tratta dal negativo A apparirà generalmente più nitida, con tutti gli elementi a fuoco. Seconda fase: ingrandiamo le due immagini in modo che gli oggetti rappresentati abbiano le stesse dimensioni (per farlo, occorrerà ingrandire il negativo A più del negativo B). A questo punto la pdc apparente sarà la stessa nelle due immagini.

DUNQUE, CHE FARE?
Se la pdc è un'illusione, noi possiamo trasformarci in illusionisti e farla lavorare per noi. Se non ne saremo capaci, essa lavorerà automaticamente contro di noi.

Gli obiettivi destinati alle reflex di piccolo e medio formato possiedono di solito una scala delle pdc basata sul calcolo dell'iperfocale. Ma attenzione! L'uso della scala non garantisce automaticamente che a quel dato diaframma e a quella data distanza di messa a fuoco voi avrete tutto nitido da un tot di metri all'infinito! Tutto dipende dal formato a cui ingrandirete l'immagine. Gli indici della profondità di campo forniti dai fabbricanti sono tarati considerando un ingrandimento lineare di circa 4 volte. Ciò significa, nel piccolo formato, una stampa di 10x15 cm, che diventa di 24x30 cm se si usa un negativo 6x7 cm. Un po' poco, soprattutto se si considera l'uso di diapositive destinate alla proiezione su grande schermo.

Come rimediare? Semplice: conoscendo in anticipo l'ingrandimento al quale verrà sottoposto il negativo, sarà sufficiente chiudere il diaframma di uno stop per ogni formato maggiore. Esempio: stiamo lavorando in piccolo formato. La scala ci dice che a f/8 la profondità di campo apparente si estenderà da 3 metri all'infinito. Noi sappiamo che questo vale per una stampa standard di 10x15 cm. Se vogliamo ingrandire l'immagine fino al formato 13x18 cm, bisognerà impostare f/11 per avere la stessa pdc apparente, ed f/16 se l'ingrandimento sarà 20x25. Si tratta di un metodo del tutto empirico che però in genere funziona.

GRANDE FORMATO, ANCORA PIU' COMPLESSO
Con il grande formato le cose si complicano. Gli obiettivi non hanno la scala della pdc. Esistono dei "depth-of-field calculators" basati sul metodo Sinar, oggi non più coperto da brevetto e pertanto utilizzabile e divulgabile liberamente. Il problema è che la Sinar aveva ideato questo sistema essenzialmente per destinarlo alle riprese in studio, cioè in un luogo chiuso dove le distanze non superano mai le poche manciate di metri. Se si prende questo sistema e lo si utilizza all'aperto, coinvolgendo distanze che arrivano fino all'infinito fotografico, il sistema perde efficacia. Inoltre il sistema proposto da Sinar funziona nel caso che non si ingrandisca troppo il negativo: chi lavora in studio per cataloghi, pieghevoli pubblicitari o per l'editoria sa che il negativo non verrà ingrandito oltre il formato 20x25 (per il formato 4x5", questo implica un ingrandimento lineare pari a 2x); ma nella fotografia di paesaggio (finalizzata per esempio alla realizzazione di poster) sono piuttosto comuni ingrandimenti che raggiungono e superano i 30x40 cm. Anche in questo caso occorre prevedere un'apertura relativa inferiore a quella suggerita dal calcolatore della pdc.

INDULGENTI E PIGNOLI
Abbiamo poco fa parlato del diametro del circolo di confusione, che è un dato matematico. Il nostro occhio "si accontenta" ed è disposto a percepire come puntiformi i cerchietti di luce inferiori a un certo diametro, calcolabile con precisione in base a formule (vedi articolo "Nitidezza a tutti i costi"). Ma occorre considerare che l'essere disposti ad "accontentarsi" dipende in gran parte dal cervello. Indipendentemente dalla capacità di risoluzione del nostro occhio, il decidere che un'immagine è nitida oppure no dipende molto anche da fattori psicologici. E' noto come le persone inesperte siano disposte a sorvolare su errori di nitidezza che certo non sfuggirebbero all'occhio critico di un fotografo. Mi succede spesso di stroncare senza appello immagini che i miei allievi ritengono più che accettabili. E guai quando mia moglie assiste alle periodiche revisioni cui sottopongo il mio archivio personale: "Ma come! Butti via una diapositiva così bella?" Questo perché il concetto del "bello" (per chi non è un fanatico della nitidezza) coinvolge elementi che non sono strettamente fotografici ma anche psicologici ed emozionali. Lo so anch'io che l'immagine che sto eliminando è evocativa e gradevole, ma so anche che nessuna agenzia seria me la comprerà mai (e se anche lo facesse, non vorrei mai sentir dire che Michele Vacchiano pubblica fotografie sfocate).

INFINITO CRITICO
Nella fotografia di paesaggio, la nitidezza all'infinito è generalmente più critica di quella degli oggetti vicini. Se è ammesso (o almeno tollerato) un primo piano non perfettamente a fuoco, soprattutto se la sua funzione è semplicemente quella di "quinta naturale" (tipo un ramo o una roccia), non è assolutamente accettabile una perdita di nitidezza dei piani lontani, che spesso sono il vero soggetto della fotografia (come accade per le montagne). Detto per inciso: io comunque elimino anche le fotografie che presentano un primo piano fuori fuoco, anche se fa da quinta naturale.

Un metodo empirico, attribuito al matematico e fotografo John Ward, consiste nel misurare la distanza del punto più vicino e la distanza del punto più lontano, dividere la differenza per tre e mettere a fuoco fra il primo e il secondo terzo. Esempio: l'oggetto più vicino si trova a due metri; l'oggetto più lontano si trova a venti metri. La differenza è diciotto metri, cioè tre terzi di sei metri ciascuno. La pdc ottimale si avrà mettendo a fuoco a otto metri, cioè i due metri dell'oggetto più vicino più i sei metri del primo terzo. Dopodiché si applica la regola vista prima, cioè chiudere il diaframma di tanti stop quanti sono gli ingrandimenti che eccedono le quattro volte. Con le reflex dotate di scala metrica l'operazione è agevole; con le macchine di grande formato occorrerebbe misurare l'allungamento del soffietto, cosa che in realtà tutti dicono di fare ma nessuno fa mai, soprattutto all'aperto. Questo spiega perché chi fotografa paesaggi in grande formato adopera sempre diaframmi incredibili, tipo f/64 o f/90, mandando a quel paese le chiacchiere sulla diffrazione e sui rischi che ne derivano (vedremo dopo perché). Ovviamente tutto si complica quando si devono basculare la piastra portaottica o il dorso: ma in questa sede non stiamo ad approfondire, dato che parliamo genericamente di profondità di campo e non di tecniche del grande formato.

CHI HA PAURA DELLA DIFFRAZIONE?
Insomma, un gran pasticcio! Roba da convincersi a fotografare quadri e francobolli, che almeno sono piatti e non pongono problemi di sorta. Se invece abbiamo a che fare con un primo piano, un piano intermedio e uno sfondo allora son dolori. Se si utilizza il grande formato e le condizioni di ripresa lo consentono (cosa che non sempre avviene) si può utilizzare la regola di Scheimpflug, di cui abbiamo già parlato in altre occasioni (v. Arrivano i giganti, parte terza, qui; non potendo utilizzare questo espediente o con macchine di piccolo e medio formato non resta altro che affidarsi al diaframma, che dovrà essere il più chiuso possibile.

A questo punto la perdita di nitidezza, cacciata dalla porta (o per lo meno tenuta lontana) grazie alla chiusura del diaframma, rischia di rientrare dalla finestra a causa della diffrazione. Il rischio è reale e non va sottovalutato. Tuttavia occorre considerare un fatto incontrovertibile, e cioè che la perdita di nitidezza dovuta alla sfocatura è molto più evidente dell'eventuale perdita di qualità dovuta alla diffrazione. Questo è un fatto incontrovertibile che rende la scelta obbligata. Anzi, di fatto non abbiamo altra scelta. Per cui mettiamoci il cuore in pace e non pretendiamo la perfezione. Una fotografia riuscita non è altro che il compromesso tra situazioni estreme. Il sapersi mantenere in funambolico equilibrio tra diversi fattori critici costituisce la competenza tecnica del fotografo.

Michele Vacchiano © 10/2000
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